Daniele Barbieri's BLOG 
 
 
 

 

20.dicembre.2007
Il blog lo sto davvero trascurando! Ma il tempo è tiranno, e in questi ultimi mesi anche peggio.
Mi limito a segnalare che su Golem è apparso qualcos'altro. Ecco qui:
Retorica d'artista (su Marcello Jori)
Nel buco nero dell'America (su Charles Burns)

2.ottobre.2007
Non ho post nuovi, perché la vita corre e il tempo è breve; ma posso almeno segnalare qualche cosa che è apparso su Golem. Sono tre articoli, ma solo il terzo è una recensione. Mi permetto comunque di pensare che anche i primi due possano interessare i lettori di questo blog. Eccoli:
Leggere, guardare. Il ritmo del respiro tra parole e immagini
Il giallo filosofico
Fumetti - L’ombra della luce .

3.luglio.2007
Non è esattamente domani, ma soli quattro giorni dal post precedente sono ugualmente un successo. Dunque, Dimmi che non vuoi morire, di Massimo Carlotto e Igort è pubblicato nientepopodimeno che da Arnoldo Mondadori Editore, in una nuova collana, "Strade Blu". Non sono riuscito a trovare informazioni sulle prospettive di questa collana: ma vuoi dire che il Grande Editore per antonomasia in Italia abbia deciso di aprire una collana a fumetti!? Potenza delle vendite dei fumetti di Repubblica! E complimenti a Igort, come Coconino e come Igor Tuveri. Ma veniamo al succo.
Dimmi che non vuoi morire è un testo di genere e nostalgico. Il genere è gradevole e la nostalgia è di ottima qualità, ma l'ombra di Simenon aleggia a tal punto che ogni tanto mi aspettavo che Maigret girasse l'angolo. Maigret abitava a Parigi, e non a Cagliari, ma in certe immagini di Igort le viuzze di Cagliari sembrano proprio quelle della capitale francese - e confesso che ora, a posteriori, se dovessi ripensare gli universi di Simenon li immaginerei proprio così, con quei neri di matita che non sono neri, e quegli azzurri pan di zucchero, invariabilmente malinconici e piovosi - persino in Sardegna!
Cosa devo dire? Bella la storia, suggestivi i disegni, da manuale i personaggi, donna fatale compresa. Ma un senso inestinguibile di deja vu.
E forse è proprio questo effetto di deja vu la ragione del fascino di lavori come questo? Forse dovremmo cercare di capire che la bellezza di un testo di genere sta nel suo sottile modulare un modello già ben costituito, e ben chiaro al lettore: il modello fornisce l'atmosfera, il riconoscimento del modello l'effetto nostalgia, le modulazioni fanno sì che ci sia sufficiente novità da poterlo trovare interessante. Dev'essere così. Sicuramente. Altrimenti questo bel libro non mi sarebbe piaciuto.

Un altro commento, se volete continuare la lettura, riguarda La perdida, di Jessica Abel, e anche un po' 99 esercizi di stile, di suo marito Matt Madden. Ma dovete spostarvi sul sito di Golem, all'indirizzo a cui si va da qui.

29.giugno.2007
A tenere un blog ci si sente in colpa, soprattutto se si ha l'impressione che qualcuno lo legga. Ci si sente in colpa quando non si ha il tempo oppure non si ha la voglia di scriverci - eppure gli argomenti ci sarebbero. Senza andare molto in là, quando ho scritto il post precedente stavo già leggendo Mamma torna a casa di Paul Hornschemeier (ed. Tunué), e mi ripromettevo di parlarne il giorno dopo. Passa un giorno passa l'altro ne sono passati quarantadue. E adesso ne parlo.
Ne parlo anche a causa di un'altra lettura, che è Mom's cancer di Brian Fies (Bottero edizioni). Mamma qui, mamma là, Stati Uniti qui, Stati Uniti là, una finestra in copertina in tutti e due i casi, e tutti e due i libri letti sul mio tavolino delle cose recenti: un paragone inevitabile, insomma. Ma le differenze ci sono.
E' buffo che sulla copertina di tutti e due i volumi compaia il nome di Will Eisner. Su quello di Hornschemeier compare come autore di un commento elogiativo ("Brillante! Letteratura illustrata. Questo racconto porta il fumetto fuori dal suo ghetto": be', come se già non l'avesse fatto lui stesso!); su quello di Brian sta invece scritto "Vincitore Eisner Award" (ed è solo poi sul retro che si scopre che non è il Premio Eisner vero e proprio quello vinto da questo libro, ma quello per il migliore fumetto pubblicato sul Web: sempre un premio Eisner, d'accordo; però...). Comunque sia, l'ombra del grande Will aleggia davvero su ambedue le storie, come su ogni graphic novel di ambientazione personale e familiare che si realizzi in America.
Le differenze, dunque. Detto in soldoni la differenza è che mentre a leggere la storia depressiva, tremenda, infantilmente agghiacciante di Hornschemeier mi sono appassionato (nonostante il lettering così minuscolo da mettere a dura prova la mia vista non più così brillante); la storia sì triste, ma piena di lotta, speranza e buoni sentimenti di Fies non è riuscita a coinvolgermi, e il mio apprezzamento è stato decisamente più di testa che di cuore.
Intendiamoci: la storia di Fies non è da buttar via, ma mi fa l'effetto che mi fanno anche le storie di Scott McCloud (a parte i suoi bei libri di teoria del fumetto a fumetti), cioè dei riusciti esercizi, che parlano di quello di cui si deve parlare quando si fa un esercizio di qualità. Nel caso di McCloud parodie dei supereroi, nel caso di Fies la mamma moribonda. Per non cadere nel retorico, Fies introduce delle parti più ironiche, episodi un poco grotteschi, un segno un po' caricaturale. Tuttavia, così facendo, cade inevitabilmente nella più sottile retorica dell'antiretorica. E' che il tema è difficile, perché quando si mette in gioco una materia così piena di emozione vissuta, il trapasso nello scontato è facilissimo. Il fatto è che, per loro natura, le grandi emozioni sono retoriche, e lo sono per forza, perché quando qualcosa ci soverchia, ci soverchia tutti al medesimo modo. Per questo raccontarle senza farle apparire scontate è difficile, difficilissimo. Mi viene in mente la quantità di prove scartate da Spiegelman quando realizzava Maus, dove di grandi emozioni ce n'è a bizzeffe:e proprio per questo si capisce di che pasta è fatta l'autore di quella storia!
Hornschemeier, bisogna dire, se la cava comunque molto meglio di Fies. Qui la mamma è già morta, e in scena ci sono un marito inconsolabile, e il figlio di sette anni, che è il narratore stesso, attraverso il velo dei ricordi. La storia consiste nel racconto della discesa del vedovo in una depressione inconsolabile, in una melanconia senza uscita, di fronte alla impotente e relativa consapevolezza del bambino.
E' forse proprio la freschezza di questo sguardo infantile a rendere la storia delicata, e molto più godibile dell'altra: sembra quasi che non si racconti il dramma del padre, ma le fantasie del figlio di fronte alla situazione. E in questo suo capire-non capire-sublimare sta probabilmente quello che rende davvero accattivante questo bel racconto.

Ahi! Volevo parlare anche del libro di Igort e Carlotto, ma non faccio in tempo. Domani!

18.maggio.2007
Per una volta non parlerò di fumetti, ma di fantascienza - con un particolare che a me pare avere qualcosa di fantastico (senza lo scientifico), ovvero che uno dei due autori del libro in questione non sono io. Ovviamente non sono neanche l'altro, ma l'altro si chiama Riccardo Mancini, e non Daniele Barbieri. Avere un omonimo in un mondo mediatizzato, dove ciò che ti identifica è proprio il nome, è un po' come avere un doppio, un altro io, un io che non sono io ma è un altro. Un'angoscia di incertezza di identità degna del miglior Philip K. Dick - e sembra essere proprio questo medesimo Dick l'autore preferito del Barbieri omonimo, e non solo il suo. Spesso, nel mio (lungo) periodo di fantascienza-dipendenza, è stato pure il mio. Oddio! Quale Barbieri sono? Sembra di essere in un romanzo di Vonnegut, prematuramente scomparso, qualunque fosse la sua età. Vonnegut in verità non è morto: lo sappiamo in pochi. In realtà è entrato in un infundibolo cronosinclastico e ne è uscito su Titano, alla ricerca delle sirene. Un infundibolo come quello in cui potrei entrare io e uscirne Barbieri, o viceversa.
All'altra estremità dell'infundibolo, dunque, insieme con Riccardo Mancini, Daniele Barbieri ha scritto un libro sulla fantascienza, che si chiama Di futuri ce n'è tanti. Otto sentieri di buona fantascienza. Anche da questo lato dell'infundibolo, di fantascienza se ne è letta parecchia, ma il Barbieri di là è indubbiamente assai più competente. (Tra le varie cose divertenti c'è il fatto che pure il Barbieri di là è un lettore di fumetti, e occasionalmente ne ha scritto. C'era una volta una rivista di fumetti fantascientifici, che si chiamava Cyborg. Qual era il Barbieri che ci scriveva, quello di qua o quello di là dall'infundibolo? La soluzione, come nella migliore fantascienza, è un po' più complicata...) La fascetta del volume dice: "Istruzioni per uscire da un presente senza sogni". E il libro parla proprio di quell'insieme particolare di sogni che viene sognato da Theodore Sturgeon e dai suoi colleghi, dagli anni Trenta agli Ottanta.
Gli otto percorsi attraverso cui veniamo condotti mostrano una serie di declinazioni del possibile create dalla letteratura di anticipazione: le città, i robot, le macchine pensanti, i cyborg, le divinità, il sesso, le galere, i presidenti degli Stati Uniti d'America. E' una piccola scelta significativa di sogni che sono molto spesso incubi, capace di portarci con sé.
Non sono in grado di dire che effetto possa fare un libro come questo su chi non abbia mai letto fantascienza. Su di me, che ne sono stato un lettore appassionato (anche se in tempi più recenti ho un po' trascurato il genere) è stata una reimmersione fascinosa in un universo che ha contribuito molto a popolare la mia immaginazione di dimensioni impossibili. Quando il mio interesse per i fumetti è diventato così patologico che ho finito per farne la principale dimensione della mia vita professionale, il fumetto di punta, quello che al momento era nuovo e che prendeva i nostri cuori, era quasi tutto di fantascienza; e per il resto attraversava un fantastico che della fantascienza era evidente debitore.
Devo dunque un sentito "grazie" al Barbieri all'altra estremità dell'infundibolo, sia per questo libro, sia per il fatto che, nonostante lo sdoppiamento cronosinclastico, nessuna delle due metà ha subito lesioni mentali, diventando, che so, la vittima di un baccellone, un delta minus, o, assai peggio, un berlusconiano.
(Giusto per onore di cronaca, il Daniele Barbieri all'altra estremità cronosinclastica non si occupa solo di fantascienza. Lo trovate per esempio qui, e anche qui.)

Ma torniamo alla realtà, ovvero al fantastico quotidiano, e spendiamo qualche parola su alcune delle ultime uscite della Coconino.
Ice Haven non è forse il miglior libro di Daniel Clowes, ma è pur sempre un libro di Daniel Clowes. La galleria di frustrati urbani (che ha avuto in David Boring il suo rappresentate più fascinoso) non sarà magari riuscita come altrove, però resta interessante questo esperimento di raccontare una storia collettiva attraverso una serie di strisce, con lo stile narrativo delle strisce. Il fumetto fa il verso al fumetto per raccontare davvero una storia. E Clowes sarà pure un maledetto intellettuale che ci gode a fare dei giochi di specchi, ma quegli specchi li sa manovrare maledettamente bene, in modo che riflettano proprio quello che lui vuole che riflettano.

Tanto per restare in tema di angosce e di specchi, parliamo del terzo volume di Riflessi, di Marco Corona. Disegno originale, ben sceneggiato; ma c'è qualcosa che non convince. Non è per i salti temporali che rendono complicata la lettura: un testo può richiedere qualsiasi fatica interpretativa, se poi ricompensa il suo lettore a sufficienza. Ma qui, alla fine, io non ho capito perché questa storia mi sarebbe dovuta interessare. E' come, adesso, se i primi due volumi fossero una promessa mancata. Non è perché questa storia non ha una fine, e tutto resta sospeso. E' piuttosto perché i personaggi, per qualche ragione, non riescono a prendere abbastanza vita, se non qua e là, in certi bei momenti (soprattutto dei primi due volumi). Non capisco bene del tutto perché il libro di Corona mi produca questa sensazione di fallimento. Probabilmente non è perché ci siano degli sbagli particolari, ma perché manca qualcosa che invece il testo di Clowes ha (e che - non dimentichiamolo - pure Corona ha dimostrato altrove di saper dare alle sue storie).

Quando è uscito Obliquomo, di Sergio Ponchione, ho avuto per breve tempo la sensazione di avere in mano un prodotto molto originale; e dopo le prime pagine ero convinto che avrei scritto una recensione molto elogiativa. Alla fine non ho scritto niente. Ero imbarazzato. Obliquomo accostava elementi di evidente originalità con altri elementi che non riuscivo a non trovare banali. Non sapevo più se parlarne bene per la sorpresa che mi aveva comunque provocato, o se parlarne male per la delusione che aveva seguito quella sorpresa. Alla fine, siccome non mi correva dietro nessuno, ho finito per temporeggiare.
Ora, ecco questo Grotesque, che riprende e continua l'opera. E manifesta gli stessi pregi e difetti del precedente. Cosa devo pensare? Ci sono due soluzioni: o il Ponchione-gusto è ontologicamente incompatibile con il Barbieri-gusto, oppure Ponchione è un giovane autore che non è ancora riuscito a liberarsi del tutto di certi eccessi goliardici, e probabilmente (e auspicabilmente) prima o poi ci darà quel capolavoro del grottesco che la sua indubbia originalità, il suo ottimo disegno, e numerosi spunti sparsi nelle sue pagine lasciano già da ora intravedere.

Infine, tanto per restare nel grottesco, ma a un livello già decisamente più risolto, non parlerò di Grenuord, di Francesca Ghermandi. Non ne parlerò qui perché ho già detto la mia al proposito su Golem. E là vi rimando.

25.aprile.2007
Scrivevo a proposito del primo volume di Lupus, di Frederik Peeters giusto un anno fa, il 13 maggio 2006. Mi sembra doveroso ora spendere almeno due parole sul secondo, recentemente uscito sempre presso Kappa. Peeters è bravo e la storia è delicata e condotta bene. Ma mentre nel primo volume decollava rapidamente e si teneva in quota, qui dà come l'impressione di non riuscire a riprendere il volo, dopo la pausa tra un volume e l'altro, e resta più o meno bassa sino alla fine. La storia irrisolta tra il protagonista e lei rimane irrisolta, e questo potrebbe anche andare bene se non rimanessero irrisolte anche le tensioni del lettore. Che la fantascienza fosse uno sfondo non particolarmente rilevante era evidente anche nel primo volume, ma dava comunque alla storia un suo profumo. Qui finisce per apparire quasi un pretesto, tanto è estranea ai reali interessi della storia - ma nemmeno questi, incentrati sulla difficile relazione tra i due personaggi, riescono a catturare davvero l'interesse.
Che Peeters sia bravo a raccontare (come pure a disegnare) si vede qui come altrove, e non è facile dire perché questo sviluppo ed epilogo sia così poco convincente. Forse è solo troppo lungo. O forse, una volta uscito di scena il secondo protagonista, la storia diventa troppo semplice, troppo prevedibile, un po' troppo già letta altrove...

12.aprile.2007
Anche se la mia scrittura in questo blog latita un po' (ma i tempi migliori tornano sempre, basta trovare il momento giusto) potete leggere quello che penso de Il sangue della mala, di Loustal e Paringaux su Golem.

10.marzo.2007
Come annunciato qualche giorno fa, ho detto la mia su La dalia azzurra, di Filippo Scozzari su Golem L'indispensabile. La potete leggere all'indirizzo http://www.golemindispensabile.ilsole24ore.com/.
Il sito ha cambiato indirizzo e interfaccia in questi giorni, e tutti link annotati pazientemente nel passato di questo blog non valgono più, rimandano a una pagina di errore. Per trovare gli articoli, dovete andare alla home page di Golem, entrare nella sezione archivio e cercare tra gli autori il mio nome. Era più comodo prima.

2.marzo.2007
Prima di tutto voglio segnalare l'inziativa Bilbolbul. Festival internazionale di Fumetto, che dopo anni di gestazione apre finalmente tra pochi giorni a Bologna, non solo con una grande mostra su Magnus e un convegno a lui dedicato, ma con un sacco di altre iniziative di cui si può trovare notizia sul sito dedicato. Complimenti e auguri all'Associazione Hamelin, che non fa solo questo, e ha tutta la mia considerazione.

Poi, voglio dire due parole sulle mie ultime letture, o almeno su quelle che hanno lasciato qualche segno.
Ho letto The Left Bang Gang, by Jason, nell'edizione americana di Fantagraphics (e conto che presto Coconino lo porti anche in italiano). Il clima surreale e un po' sopito del fumettista norvegese Jason assomiglia un po' a quello del regista finlandese Kaurismäki. In questa storia quattro fumettisti americani e irlandesi vivono una situazione di drammatica (e surrealmente ironica) bohème nella Parigi degli anni Venti. I loro nomi sono Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Ezra Pound e James Joyce. L'arte è grande ma la vita è dura e l'incomprensione del pubblico totale. Così i quattro decidono di compiere una rapina.
Tutto è immerso nella banalità del quotidiano, e nella sua defatigante assenza di risultati tangibili. E Jason è bravissimo a farci vedere il lato ironico di questo dramma che sembra una presa in giro della vita. Ma chi è che ha il diritto di decidere qual è la sofferenza vera, e quale, invece, quella di maniera?

Giuseppe Palumbo trae liberamente da Lu Xun il Diario di un pazzo (Comma 22, di Bologna). E' un volumetto sottile disegnato al pennello, con un virtuosismo da estremo oriente, stampato per farci godere di queste pennellate nere, che definiscono le forme e i dinamismi. Mi viene da dire che, mentre Jason tempera il tragico attraverso l'ironia, Palumbo è uno spirito tragico puro, dove persino gli elementi ironici virano in tragedia. Basta pensare al mitico Ramarro, con cui iniziò la sua carriera: sarcastico e provocatorio, ma così violentemente parodistico da non potersi mai del tutto risolvere in risata (benché amara). E infatti, episodio dopo episodio, lo spirito tragico emergeva sempre di più.
Ora è rimasto sostanzialmente quello, e Palumbo è bravo, e ben capace di raccontarci le sensazioni estreme del mondo visto attraverso il filtro deformante della psicosi, della paranoia.

Il numero 8 di Black, la rivista della Coconino, è dedicato a Harvey Kurtzman, grande fumettista americano, inventore, tra l'altro, di Mad, e mai abbastanza considerato - se non forse da Art Spiegelman, che gli ha spesso dimostrato pubblicamente la sua considerazione e il suo affetto. Se non sapete chi è Kurtzman, questo è uno dei buoni motivi per comperare Black; ma ce ne sono almeno altri sedici, di buoni motivi, tanti quanti i fumetti e articoli (ma soprattutto fumetti) contenuti nella rivista. Mi colpiscono soprattutto i tre coreani Lee Kyung-Suk, Ancco e Kim Dae-Jong, che dimostrano una completa indipendenza stilistica dal gigante giapponese che sta di fianco a loro. E apprezzo anche l'onirismo tenero e amaro dei finlandesi Amanda Vähämäki e Pentti Otsamo. Ma la rivista contiene anche Jason Lutes e Kevin Huizenga, e Seth, e Baru e Martí. E vi sono diversi italiani giovani e meno giovani, dagli immarcescibili Massimo Giacon e Mimì Colucci, a Marco Corona, Giacomo Nanni, Roberto La Forgia, e Sara Colaone con Francesco Satta. Di tutti (o quasi) questi autori mi è già capitato di scrivere in questo blog, nel corso del tempo. Sono certo che avrò l'occasione anche di colmare eventuali lacune.

Alla ristampa de La dalia azzurra, di Filippo Scòzzari da Raymond Chandler, voglio dedicare più spazio, e approfitterò perciò della rubrica che tengo su Golem. Tra qualche giorno.

23.gennaio.2007
Sembra che le case editrici tradizionali si siano accorte che esistono i fumetti, purché non si usi questo nome: esse infatti pubblicano non fumetti, bensì graphic novel. In effetti Will Eisner non è stato solo un grandissimo autore, ma anche uno che di marketing ne capiva parecchio. E' stato lui infatti a comprendere per primo che coi comics (parola che in inglese ha più o meno lo stesso senso lievemente dipregiativo dell'italiano fumetti) non si poteva andare molto in là. Quindi, poiché non si poteva migliorare ulteriormente quello che lui produceva (visto che era già meglio della maggior parte dei romanzi pubblicati negli USA) bisognava cambiare la strategia di mercato, e di conseguenza, prima di tutto, il nome: perciò, vai di sequential art e di graphic novel! Parole nobilitanti dal valore inverecondamente commerciale.
Ma sinché era il vecchio Will a promuovere se stesso, gli si concede volentieri di raccontarsi al meglio anche a chi crede di sapere e non sa. Piccoli trucchi a fin di bene, tutto sommato. Fumetti o graphic novel, ci va bene tutto, basta che siano buoni. E perdoniamo di buon cuore quindi tutti coloro che hanno prodotto graphic novel di qualità, che potremmo chiamare tranquillamente bei fumetti d'autore.
Quando un fumetto è brutto, tuttavia, è brutto e basta, proprio come un brutto romanzo o un brutto film. Chiamarlo graphic novel assume in questi casi qualcosa di squallido, come se stessero cercando di rifilarci una patacca dietro un nome altisonante, mentre perdoniamo a malapena ai fumetti che si meritano l'altisonanza di fregiarsi di un simile appellativo.
Insomma, per farla breve, la parola graphic novel campeggia sulla copertina di Bastogne, di Enrico Brizzi e Maurizio Manfredi (Baldini & Castoldi Dalai), urlata da una testa con elmetto tedesco, con tutta la sua inquietante promessa di darci qualcosa di più di un semplice fumetto.
Ed è stato perciò con la disposizione d'animo di qualcuno che si aspetta qualcosa di più, che mi sono accinto a leggere.
E' strano come sin dalle prime pagine io abbia iniziato a sentir aleggiare sopra di me lo spirito di Filippo Scòzzari (che è comunque vivo e sta bene, a quanto ne so, e gli auguro di proseguire così a lungo). Sarà l'ambientazione bolognese anniottanta del racconto, sarà il ricordo del suo Prima pagare poi ricordare, che descrive ambienti non troppo lontani da questi. Saranno queste cose, o anche altre; però, arrivato a un certo punto, ho capito di colpo il perché di questa presenza così invadente agli occhi della mia immaginazione.
Il fatto è che quello che avevo sotto gli occhi gridava vendetta. E lui, Scòzzari, sicuramente sarebbe capace molto meglio di me di trovare le parole per esprimerla. Poiché però io non sono e non posso essere lui, devo proprio accontentarmi della mia pochezza, e ci proverò con parole mie.
Non voglio parlare del Brizzi autore del romanzo. Non mi riguarda. O forse, più semplicemente, non mi appassiona ma nemmeno fornisce motivo di suscitare in me desideri di vendetta. E' il fumetto Bastogne, quello che mi ha ferito, o meglio - scusate - la graphic novel.
Va detto che sulla prima pagina si nota la dedica (doverosa, perlomeno) "a Paz e a Tamburo". Il problema è che nelle pagine che seguono più che di citazione si dovrebbe forse parlare di plagio. Ma sarebbe sbagliato parlare di plagio, perché il plagiatore è un truffaldino, e non è la truffa il problema che incontriamo qui. Il problema è semplicemente la pochezza, la scarsa capacità. Manfredi (ma Brizzi è innocente del tutto, in questo?) si confronta a ogni vignetta con i suoi modelli (90% Paz e 10% Tamburo) e perde, perde, perde. Perde talmente di continuo che viene da domandarsi il perché di questo masochismo stilistico.
Sarò un anziano fumettomane, ma, vignetta dopo vignetta, io non vedevo altro che cattive copie delle invenzioni di Pazienza, sino a un livello di imitazione così volgare che facevo fatica a crederci. Un triste esempio: l'uso della carta a quadretti come base del disegno in certe sequenze. In Pazienza era un'ostentazione di trascuratezza che appariva coerente con i fatti raccontati; e finiva per rendere ancora più drammatiche certe autodistruttive sequenze di Pompeo. Qui cos'è? Un esercizio di stile? Una citazione? Ma non si cita il medesimo autore per duecento pagine!! Quello che in Pazienza appariva spontaneo e disinvolto (ed era probabilmente calcolatissimo, ma ars est celare artem) qui diventa artificioso, falso.
Pagina dopo pagina, per chi conosce Pazienza (e credo che siamo tanti), l'angoscia cresce. Le ritroviamo tutte, le sue idiosincrasie, ma là, nel loro contesto naturale, erano altrettante invenzioni dissacranti. Qui è un balletto di idee altrui usate in maniera più o meno adeguata.
L'angoscia, nel leggere queste pagine, prendeva la forma seguente: ma non è che Pazienza era davvero così anche lui? Non è che a noi ci appariva tanto bravo perché eravamo giovani, e lui ci prendeva di sorpresa? In fondo qui ci sono tutte, ma proprio tutte, le sue trovate grafiche, una dopo l'altra, e non sono usate nemmeno troppo a sproposito.
Mi sono andato allora a rileggere Giallo scolastico, tremebondo. Ed è bastata la prima vignetta a farmi passare per sempre la paura. Le vignette successive hanno confermato: Paz è comunque un grande, e i suoi imitatori non sono Paz!
Ora sto cercando di liberarmi dallo spirito di Scozzari (comunque inimitabile, perché allora c'era Paz, ma c'era anche lui) per essere un po' più comprensivo. Mi dispiace per Manfredi (ma anche Brizzi avrà la sua parte di responsabilità), e capisco che si volessero omaggiare gli anni Ottanta; ma questa pedissequa riproposizione dello stile di Paz non può che suscitare un immediato confronto con lui. E il risultato è comunque disastroso! Tutto viene letto pensando a come era invece divertente appassionante intrigante intelligente quello che usciva dalla penna di Pazienza. E questo invece com'è? Se gli autori fossero stati più bravi, sarebbe semplicemente un po' deludente. Ma se gli autori fossero stati bravi avrebbero strizzato l'occhio qua e là, e avrebbero seguito la loro strda, e non la sua.
Così è semplicemente una pena.

Mi rifaccio gli occhi leggendo Gipi, S. (Coconino), un racconto delicato come solo lui li sa raccontare, dedicato al ricordo di suo padre, e a quello di una notte passata in tenda da soli, lui bimbo con un altro bimbo. Un bel racconto alla Gipi, dove si giustappone il presente al passato, e la fantasia alla realtà, tenero e incantato - a cui si perdonano bene i lunghi testi scritti, perché, semplicemente, ci stanno. E' un bel libro di quelli che, quando sono finiti, ne vorresti subito un altro, e magari un altro ancora.
Ma Gipi questo pregio ce l'ha, e non si fa aspettare molto per il prossimo volume, di solito.

Bello e delicato anche il Carnera di Davide Toffolo, ristampato or ora da Coconino, col suo racconto sospeso tra il personale e l'agiografico. Il racconto, cioè, insieme di una persona e di un mito - cosa che, ultimamente, sembra una cifra frequente dei fumetti di Toffolo.

Coconino pubblica anche un ponderoso fumetto coreano, Il ponte di Nogunri, di Park Kun-woong e Chung Eun-yong (oltre 600 pagine!!!). La prima cosa che mi viene da dire è che con quest'opera il fumetto coreano si dimostra tranquillamente autonomo da quello giapponese. Semmai una vaga parentela si può vedere col fumetto francese. Ma il tutto è comunque piuttosto originale, ben raccontato e molto ben disegnato.
In tempi di invasioni americane in Iraq, il tema di questa graphic novel (onorevolmente tale - e l'espressione non compare né in copertina né altrove!) non è affatto secondario. Vi si racconta di una mostruosa strage di civili sudcoreani, avvenuta durante la guerra di Corea (1950), ad opera degli alleati statunitensi. A leggere, c'è davvero da rabbrividire, e a lungo.
Si tratta di un'opera di denuncia, bella e paurosa. Un vero romanzo a fumetti; pardon, romanzo grafico.

19.gennaio.2007
Di Bam! Sock! Lo scontro a fumetti. Dramma e spettacolo del conflitto nei comics d'avventura, di Valentina Semprini (Tunué), non posso permettermi di dire molto, anche se lo considero un ottimo libro. Non lo posso fare perché sono in qualche modo coinvolto nell'impresa, avendo scritto la prefazione del libro. Posso però riportarla qui. Sono parole mie, e non potrei esprimere meglio di così quello che penso di questo libro:
"Una caratteristica di molte idee brillanti è quella di apparire, dopo che hanno avuto successo, del tutto ovvie. Che cosa c’è di più ovvio e semplice di una ruota, per esempio? Eppure, ci sono volute decine di migliaia di anni per arrivare a questa idea ovvia e semplice, e vi sono civiltà evolute e raffinate che ne hanno persino fatto a meno. È il principio dell’uovo di Colombo, l’idea a cui nessuno pensa prima, e che solo dopo essere stata espressa viene trovata evidente da tutti.
Scrivere la storia del fumetto americano a partire da un punto di vista particolare, quello della lotta, potrà forse sembrare un’idea sufficientemente ovvia dopo essere stata esposta, ma anche a questa non aveva mai pensato nessuno, prima d’ora. E questo libro mostra brillantemente come invece la lotta sia un tema cruciale nel fumetto d’oltre oceano.
Ricordo bene un commento spontaneo di Eco alla prima versione di questo scritto, prodotta come tesi di laurea in Semiotica, che ebbi la fortuna di seguire insieme a lui. Un giorno mi disse improvvisamente, senza che fosse nel discorso, qualcosa come: “Ehi hai visto questa Semprini quante idee interessanti è riuscita a tirar fuori da un tema che sembrerebbe così ultraspecifico! Da non crederci…”
Il fatto è che questo tema apparentemente così specifico ne nasconde un altro, che è quello – davvero generale – della spettacolarità e dei suoi modi di manifestarsi. E alla luce della maniera in cui viene raccontata la lotta, e del peso narrativo che gli episodi di lotta hanno nell’economia delle storie, è possibile ricavare uno spaccato dell’evoluzione del fumetto americano e del suo modo di rapportarsi al proprio pubblico che sarebbe difficile ottenere altrimenti.
Insomma: questo libro non contiene una ricerca specialistica su un tema specialistico che chissà perché dovrebbe interessare qualche lettore non accademico. Al contrario, in queste pagine viene raccontata una raffinata storia del fumetto americano e del suo modo di costruire il proprio spettacolo. Da Buck Rogers a Sin City, la rappresentazione del conflitto ha avuto ruoli, modalità e pesi diversi nell’indurre l’attenzione del lettore.
Questo libro possiede però, a mio parere, anche un secondo e non minore pregio. È nato, dunque, almeno nella sua prima versione, come tesi di laurea in Semiotica; e contiene perciò, evidentemente, un saggio di impostazione semiotica. Nonostante questo, esso non richiede ai suoi lettori di conoscere i principi di una teoria non sempre semplicissima, e anzi talvolta persino un poco astrusa. Al contrario, questo libro è leggibile da parte di chiunque, con in più il vantaggio che numerosi concetti semiotici che qui vengono utilizzati con intelligenza e senso critico sono anche spiegati bene, e resi accessibili con facilità.
È dunque con una certa invidia per un’idea brillante che non ho avuto io, sviluppata poi in maniera ugualmente brillante e rigorosa, che ho scritto queste quattro righe di presentazione, nella speranza che il lettore voglia addentrarsi in questo libro, per scoprirvi quello che vi ho scoperto anch’io."
Buona lettura!

 

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