20.dicembre.2007
Il blog lo sto davvero trascurando! Ma il tempo è tiranno, e
in questi ultimi mesi anche peggio.
Mi limito a segnalare che su Golem è apparso qualcos'altro. Ecco
qui:
Retorica
d'artista (su Marcello Jori)
Nel
buco nero dell'America (su Charles Burns)
2.ottobre.2007
Non ho post nuovi, perché la vita corre e il tempo è breve;
ma posso almeno segnalare qualche cosa che è apparso su Golem.
Sono tre articoli, ma solo il terzo è una recensione. Mi permetto
comunque di pensare che anche i primi due possano interessare i lettori
di questo blog. Eccoli:
Leggere,
guardare. Il ritmo del respiro tra parole e immagini
Il
giallo filosofico
Fumetti
- L’ombra della luce .
3.luglio.2007
Non è esattamente domani, ma soli quattro giorni dal
post precedente sono ugualmente un successo. Dunque, Dimmi che non
vuoi morire, di Massimo Carlotto e Igort
è pubblicato nientepopodimeno che da Arnoldo Mondadori Editore,
in una nuova collana, "Strade Blu". Non sono riuscito a trovare
informazioni sulle prospettive di questa collana: ma vuoi dire che il
Grande Editore per antonomasia in Italia abbia deciso di aprire una
collana a fumetti!? Potenza delle vendite dei fumetti di Repubblica!
E complimenti a Igort, come Coconino e come Igor Tuveri. Ma veniamo
al succo.
Dimmi che non vuoi morire è un testo di genere e nostalgico.
Il genere è gradevole e la nostalgia è di ottima qualità,
ma l'ombra di Simenon aleggia a tal punto che ogni tanto mi aspettavo
che Maigret girasse l'angolo. Maigret abitava a Parigi, e non a Cagliari,
ma in certe immagini di Igort le viuzze di Cagliari sembrano proprio
quelle della capitale francese - e confesso che ora, a posteriori, se
dovessi ripensare gli universi di Simenon li immaginerei proprio così,
con quei neri di matita che non sono neri, e quegli azzurri pan di zucchero,
invariabilmente malinconici e piovosi - persino in Sardegna!
Cosa devo dire? Bella la storia, suggestivi i disegni, da manuale i
personaggi, donna fatale compresa. Ma un senso inestinguibile di deja
vu.
E forse è proprio questo effetto di deja vu la ragione
del fascino di lavori come questo? Forse dovremmo cercare di capire
che la bellezza di un testo di genere sta nel suo sottile modulare un
modello già ben costituito, e ben chiaro al lettore: il modello
fornisce l'atmosfera, il riconoscimento del modello l'effetto nostalgia,
le modulazioni fanno sì che ci sia sufficiente novità
da poterlo trovare interessante. Dev'essere così. Sicuramente.
Altrimenti questo bel libro non mi sarebbe piaciuto.
Un altro commento, se volete continuare la lettura, riguarda La
perdida, di Jessica Abel, e anche un po' 99
esercizi di stile, di suo marito Matt Madden.
Ma dovete spostarvi sul sito di Golem, all'indirizzo
a cui si va da qui.
29.giugno.2007
A tenere un blog ci si sente in colpa, soprattutto se si ha l'impressione
che qualcuno lo legga. Ci si sente in colpa quando non si ha il tempo
oppure non si ha la voglia di scriverci - eppure gli argomenti ci sarebbero.
Senza andare molto in là, quando ho scritto il post precedente
stavo già leggendo Mamma torna a casa di Paul
Hornschemeier (ed. Tunué), e mi ripromettevo di parlarne
il giorno dopo. Passa un giorno passa l'altro ne sono passati quarantadue.
E adesso ne parlo.
Ne parlo anche a causa di un'altra lettura, che è Mom's cancer
di Brian Fies (Bottero edizioni). Mamma qui, mamma
là, Stati Uniti qui, Stati Uniti là, una finestra in copertina
in tutti e due i casi, e tutti e due i libri letti sul mio tavolino
delle cose recenti: un paragone inevitabile, insomma. Ma le differenze
ci sono.
E' buffo che sulla copertina di tutti e due i volumi compaia il nome
di Will Eisner. Su quello di Hornschemeier compare come autore di un
commento elogiativo ("Brillante! Letteratura illustrata. Questo
racconto porta il fumetto fuori dal suo ghetto": be', come se già
non l'avesse fatto lui stesso!); su quello di Brian sta invece scritto
"Vincitore Eisner Award" (ed è solo poi sul retro che
si scopre che non è il Premio Eisner vero e proprio quello vinto
da questo libro, ma quello per il migliore fumetto pubblicato sul Web:
sempre un premio Eisner, d'accordo; però...). Comunque sia, l'ombra
del grande Will aleggia davvero su ambedue le storie, come su ogni graphic
novel di ambientazione personale e familiare che si realizzi in America.
Le differenze, dunque. Detto in soldoni la differenza è che mentre
a leggere la storia depressiva, tremenda, infantilmente agghiacciante
di Hornschemeier mi sono appassionato (nonostante il lettering così
minuscolo da mettere a dura prova la mia vista non più così
brillante); la storia sì triste, ma piena di lotta, speranza
e buoni sentimenti di Fies non è riuscita a coinvolgermi, e il
mio apprezzamento è stato decisamente più di testa che
di cuore.
Intendiamoci: la storia di Fies non è da buttar via, ma mi fa
l'effetto che mi fanno anche le storie di Scott McCloud (a parte i suoi
bei libri di teoria del fumetto a fumetti), cioè dei riusciti
esercizi, che parlano di quello di cui si deve parlare quando si fa
un esercizio di qualità. Nel caso di McCloud parodie dei supereroi,
nel caso di Fies la mamma moribonda. Per non cadere nel retorico, Fies
introduce delle parti più ironiche, episodi un poco grotteschi,
un segno un po' caricaturale. Tuttavia, così facendo, cade inevitabilmente
nella più sottile retorica dell'antiretorica. E' che il tema
è difficile, perché quando si mette in gioco una materia
così piena di emozione vissuta, il trapasso nello scontato è
facilissimo. Il fatto è che, per loro natura, le grandi emozioni
sono retoriche, e lo sono per forza, perché quando qualcosa
ci soverchia, ci soverchia tutti al medesimo modo. Per questo raccontarle
senza farle apparire scontate è difficile, difficilissimo. Mi
viene in mente la quantità di prove scartate da Spiegelman quando
realizzava Maus, dove di grandi emozioni ce n'è a bizzeffe:e
proprio per questo si capisce di che pasta è fatta l'autore di
quella storia!
Hornschemeier, bisogna dire, se la cava comunque molto meglio di Fies.
Qui la mamma è già morta, e in scena ci sono un marito
inconsolabile, e il figlio di sette anni, che è il narratore
stesso, attraverso il velo dei ricordi. La storia consiste nel racconto
della discesa del vedovo in una depressione inconsolabile, in una melanconia
senza uscita, di fronte alla impotente e relativa consapevolezza del
bambino.
E' forse proprio la freschezza di questo sguardo infantile a rendere
la storia delicata, e molto più godibile dell'altra: sembra quasi
che non si racconti il dramma del padre, ma le fantasie del figlio di
fronte alla situazione. E in questo suo capire-non capire-sublimare
sta probabilmente quello che rende davvero accattivante questo bel racconto.
Ahi! Volevo parlare anche del libro di Igort e Carlotto, ma non faccio
in tempo. Domani!
18.maggio.2007
Per una volta non parlerò di fumetti, ma di fantascienza - con
un particolare che a me pare avere qualcosa di fantastico (senza lo
scientifico), ovvero che uno dei due autori del libro in questione non
sono io. Ovviamente non sono neanche l'altro, ma l'altro si chiama Riccardo
Mancini, e non Daniele Barbieri. Avere un
omonimo in un mondo mediatizzato, dove ciò che ti identifica
è proprio il nome, è un po' come avere un doppio, un altro
io, un io che non sono io ma è un altro. Un'angoscia di incertezza
di identità degna del miglior Philip K. Dick - e sembra essere
proprio questo medesimo Dick l'autore preferito del Barbieri omonimo,
e non solo il suo. Spesso, nel mio (lungo) periodo di fantascienza-dipendenza,
è stato pure il mio. Oddio! Quale Barbieri sono? Sembra di essere
in un romanzo di Vonnegut, prematuramente scomparso, qualunque fosse
la sua età. Vonnegut in verità non è morto: lo
sappiamo in pochi. In realtà è entrato in un infundibolo
cronosinclastico e ne è uscito su Titano, alla ricerca delle
sirene. Un infundibolo come quello in cui potrei entrare io e uscirne
Barbieri, o viceversa.
All'altra estremità dell'infundibolo, dunque, insieme con Riccardo
Mancini, Daniele Barbieri ha scritto un libro sulla fantascienza, che
si chiama Di futuri ce n'è tanti. Otto sentieri di buona
fantascienza. Anche da questo lato dell'infundibolo, di fantascienza
se ne è letta parecchia, ma il Barbieri di là è
indubbiamente assai più competente. (Tra le varie cose divertenti
c'è il fatto che pure il Barbieri di là è un lettore
di fumetti, e occasionalmente ne ha scritto. C'era una volta una rivista
di fumetti fantascientifici, che si chiamava Cyborg. Qual era
il Barbieri che ci scriveva, quello di qua o quello di là dall'infundibolo?
La soluzione, come nella migliore fantascienza, è un po' più
complicata...) La fascetta del volume dice: "Istruzioni per uscire
da un presente senza sogni". E il libro parla proprio di quell'insieme
particolare di sogni che viene sognato da Theodore Sturgeon e dai suoi
colleghi, dagli anni Trenta agli Ottanta.
Gli otto percorsi attraverso cui veniamo condotti mostrano una serie
di declinazioni del possibile create dalla letteratura di anticipazione:
le città, i robot, le macchine pensanti, i cyborg, le divinità,
il sesso, le galere, i presidenti degli Stati Uniti d'America. E' una
piccola scelta significativa di sogni che sono molto spesso incubi,
capace di portarci con sé.
Non sono in grado di dire che effetto possa fare un libro come questo
su chi non abbia mai letto fantascienza. Su di me, che ne sono stato
un lettore appassionato (anche se in tempi più recenti ho un
po' trascurato il genere) è stata una reimmersione fascinosa
in un universo che ha contribuito molto a popolare la mia immaginazione
di dimensioni impossibili. Quando il mio interesse per i fumetti è
diventato così patologico che ho finito per farne la principale
dimensione della mia vita professionale, il fumetto di punta, quello
che al momento era nuovo e che prendeva i nostri cuori, era quasi tutto
di fantascienza; e per il resto attraversava un fantastico che della
fantascienza era evidente debitore.
Devo dunque un sentito "grazie" al Barbieri all'altra estremità
dell'infundibolo, sia per questo libro, sia per il fatto che, nonostante
lo sdoppiamento cronosinclastico, nessuna delle due metà ha subito
lesioni mentali, diventando, che so, la vittima di un baccellone, un
delta minus, o, assai peggio, un berlusconiano.
(Giusto per onore di cronaca, il Daniele Barbieri all'altra estremità
cronosinclastica non si occupa solo di fantascienza. Lo trovate per
esempio qui, e anche
qui.)
Ma torniamo alla realtà, ovvero al fantastico quotidiano, e
spendiamo qualche parola su alcune delle ultime uscite della Coconino.
Ice Haven non è forse il miglior libro di Daniel
Clowes, ma è pur sempre un libro di Daniel Clowes. La
galleria di frustrati urbani (che ha avuto in David Boring
il suo rappresentate più fascinoso) non sarà magari riuscita
come altrove, però resta interessante questo esperimento di raccontare
una storia collettiva attraverso una serie di strisce, con lo stile
narrativo delle strisce. Il fumetto fa il verso al fumetto per raccontare
davvero una storia. E Clowes sarà pure un maledetto intellettuale
che ci gode a fare dei giochi di specchi, ma quegli specchi li sa manovrare
maledettamente bene, in modo che riflettano proprio quello che lui vuole
che riflettano.
Tanto per restare in tema di angosce e di specchi, parliamo del terzo
volume di Riflessi, di Marco Corona. Disegno
originale, ben sceneggiato; ma c'è qualcosa che non convince.
Non è per i salti temporali che rendono complicata la lettura:
un testo può richiedere qualsiasi fatica interpretativa, se poi
ricompensa il suo lettore a sufficienza. Ma qui, alla fine, io non ho
capito perché questa storia mi sarebbe dovuta interessare. E'
come, adesso, se i primi due volumi fossero una promessa mancata. Non
è perché questa storia non ha una fine, e tutto resta
sospeso. E' piuttosto perché i personaggi, per qualche ragione,
non riescono a prendere abbastanza vita, se non qua e là, in
certi bei momenti (soprattutto dei primi due volumi). Non capisco bene
del tutto perché il libro di Corona mi produca questa sensazione
di fallimento. Probabilmente non è perché ci siano degli
sbagli particolari, ma perché manca qualcosa che invece il testo
di Clowes ha (e che - non dimentichiamolo - pure Corona ha dimostrato
altrove di saper dare alle sue storie).
Quando è uscito Obliquomo, di Sergio Ponchione,
ho avuto per breve tempo la sensazione di avere in mano un prodotto
molto originale; e dopo le prime pagine ero convinto che avrei scritto
una recensione molto elogiativa. Alla fine non ho scritto niente. Ero
imbarazzato. Obliquomo accostava elementi di evidente originalità
con altri elementi che non riuscivo a non trovare banali. Non sapevo
più se parlarne bene per la sorpresa che mi aveva comunque provocato,
o se parlarne male per la delusione che aveva seguito quella sorpresa.
Alla fine, siccome non mi correva dietro nessuno, ho finito per temporeggiare.
Ora, ecco questo Grotesque, che riprende e continua l'opera.
E manifesta gli stessi pregi e difetti del precedente. Cosa devo pensare?
Ci sono due soluzioni: o il Ponchione-gusto è ontologicamente
incompatibile con il Barbieri-gusto, oppure Ponchione è un giovane
autore che non è ancora riuscito a liberarsi del tutto di certi
eccessi goliardici, e probabilmente (e auspicabilmente) prima o poi
ci darà quel capolavoro del grottesco che la sua indubbia originalità,
il suo ottimo disegno, e numerosi spunti sparsi nelle sue pagine lasciano
già da ora intravedere.
Infine, tanto per restare nel grottesco, ma a un livello già
decisamente più risolto, non parlerò di Grenuord,
di Francesca Ghermandi. Non ne parlerò qui perché
ho già detto la mia al proposito su Golem. E
là vi rimando.
25.aprile.2007
Scrivevo a proposito del primo volume di Lupus, di Frederik
Peeters giusto un anno fa, il 13 maggio 2006. Mi sembra doveroso
ora spendere almeno due parole sul secondo, recentemente uscito sempre
presso Kappa. Peeters è bravo e la storia è delicata e
condotta bene. Ma mentre nel primo volume decollava rapidamente e si
teneva in quota, qui dà come l'impressione di non riuscire a
riprendere il volo, dopo la pausa tra un volume e l'altro, e resta più
o meno bassa sino alla fine. La storia irrisolta tra il protagonista
e lei rimane irrisolta, e questo potrebbe anche andare bene se non rimanessero
irrisolte anche le tensioni del lettore. Che la fantascienza fosse uno
sfondo non particolarmente rilevante era evidente anche nel primo volume,
ma dava comunque alla storia un suo profumo. Qui finisce per apparire
quasi un pretesto, tanto è estranea ai reali interessi della
storia - ma nemmeno questi, incentrati sulla difficile relazione tra
i due personaggi, riescono a catturare davvero l'interesse.
Che Peeters sia bravo a raccontare (come pure a disegnare) si vede qui
come altrove, e non è facile dire perché questo sviluppo
ed epilogo sia così poco convincente. Forse è solo troppo
lungo. O forse, una volta uscito di scena il secondo protagonista, la
storia diventa troppo semplice, troppo prevedibile, un po' troppo già
letta altrove...
12.aprile.2007
Anche se la mia scrittura in questo blog latita un po' (ma i tempi migliori
tornano sempre, basta trovare il momento giusto) potete leggere quello
che penso de Il sangue della mala, di Loustal
e Paringaux su Golem.
10.marzo.2007
Come annunciato qualche giorno fa, ho detto la mia su La dalia azzurra,
di Filippo Scozzari su Golem L'indispensabile. La potete
leggere all'indirizzo http://www.golemindispensabile.ilsole24ore.com/.
Il sito ha cambiato indirizzo e interfaccia in questi giorni, e tutti
link annotati pazientemente nel passato di questo blog non valgono più,
rimandano a una pagina di errore. Per trovare gli articoli, dovete andare
alla home
page di Golem, entrare nella sezione
archivio e cercare tra gli autori il mio nome. Era più comodo
prima.
2.marzo.2007
Prima di tutto voglio segnalare l'inziativa Bilbolbul. Festival
internazionale di Fumetto, che dopo anni di gestazione apre finalmente
tra pochi giorni a Bologna, non solo con una grande mostra su Magnus
e un convegno a lui dedicato, ma con un sacco di altre iniziative di
cui si può trovare notizia sul sito
dedicato. Complimenti e auguri all'Associazione Hamelin, che non
fa solo questo, e ha tutta la mia considerazione.
Poi, voglio dire due parole sulle mie ultime letture, o almeno su quelle
che hanno lasciato qualche segno.
Ho letto The Left Bang Gang, by Jason, nell'edizione
americana di Fantagraphics (e conto che presto Coconino lo porti anche
in italiano). Il clima surreale e un po' sopito del fumettista norvegese
Jason assomiglia un po' a quello del regista finlandese Kaurismäki.
In questa storia quattro fumettisti americani e irlandesi vivono una
situazione di drammatica (e surrealmente ironica) bohème nella
Parigi degli anni Venti. I loro nomi sono Ernest Hemingway, Francis
Scott Fitzgerald, Ezra Pound e James Joyce. L'arte è grande ma
la vita è dura e l'incomprensione del pubblico totale. Così
i quattro decidono di compiere una rapina.
Tutto è immerso nella banalità del quotidiano, e nella
sua defatigante assenza di risultati tangibili. E Jason è bravissimo
a farci vedere il lato ironico di questo dramma che sembra una presa
in giro della vita. Ma chi è che ha il diritto di decidere qual
è la sofferenza vera, e quale, invece, quella di maniera?
Giuseppe Palumbo trae liberamente da Lu Xun
il Diario di un pazzo (Comma 22, di Bologna). E' un volumetto
sottile disegnato al pennello, con un virtuosismo da estremo oriente,
stampato per farci godere di queste pennellate nere, che definiscono
le forme e i dinamismi. Mi viene da dire che, mentre Jason tempera il
tragico attraverso l'ironia, Palumbo è uno spirito tragico puro,
dove persino gli elementi ironici virano in tragedia. Basta pensare
al mitico Ramarro, con cui iniziò la sua carriera: sarcastico
e provocatorio, ma così violentemente parodistico da non potersi
mai del tutto risolvere in risata (benché amara). E infatti,
episodio dopo episodio, lo spirito tragico emergeva sempre di più.
Ora è rimasto sostanzialmente quello, e Palumbo è bravo,
e ben capace di raccontarci le sensazioni estreme del mondo visto attraverso
il filtro deformante della psicosi, della paranoia.
Il numero 8 di Black, la rivista della Coconino, è
dedicato a Harvey Kurtzman, grande fumettista americano,
inventore, tra l'altro, di Mad, e mai abbastanza considerato
- se non forse da Art Spiegelman, che gli ha spesso
dimostrato pubblicamente la sua considerazione e il suo affetto. Se
non sapete chi è Kurtzman, questo è uno dei buoni motivi
per comperare Black; ma ce ne sono almeno altri sedici, di
buoni motivi, tanti quanti i fumetti e articoli (ma soprattutto fumetti)
contenuti nella rivista. Mi colpiscono soprattutto i tre coreani Lee
Kyung-Suk, Ancco e Kim Dae-Jong,
che dimostrano una completa indipendenza stilistica dal gigante giapponese
che sta di fianco a loro. E apprezzo anche l'onirismo tenero e amaro
dei finlandesi Amanda Vähämäki e Pentti
Otsamo. Ma la rivista contiene anche Jason Lutes
e Kevin Huizenga, e Seth, e Baru
e Martí. E vi sono diversi italiani giovani
e meno giovani, dagli immarcescibili Massimo Giacon
e Mimì Colucci, a Marco Corona,
Giacomo Nanni, Roberto La Forgia,
e Sara Colaone con Francesco Satta.
Di tutti (o quasi) questi autori mi è già capitato di
scrivere in questo blog, nel corso del tempo. Sono certo che avrò
l'occasione anche di colmare eventuali lacune.
Alla ristampa de La dalia azzurra, di Filippo Scòzzari
da Raymond Chandler, voglio dedicare più spazio,
e approfitterò perciò della rubrica che tengo su Golem.
Tra qualche giorno.
23.gennaio.2007
Sembra che le case editrici tradizionali si siano accorte che esistono
i fumetti, purché non si usi questo nome: esse infatti pubblicano
non fumetti, bensì graphic novel. In effetti
Will Eisner non è stato solo un grandissimo
autore, ma anche uno che di marketing ne capiva parecchio. E' stato
lui infatti a comprendere per primo che coi comics (parola
che in inglese ha più o meno lo stesso senso lievemente dipregiativo
dell'italiano fumetti) non si poteva andare molto in là.
Quindi, poiché non si poteva migliorare ulteriormente quello
che lui produceva (visto che era già meglio della maggior
parte dei romanzi pubblicati negli USA) bisognava cambiare la strategia
di mercato, e di conseguenza, prima di tutto, il nome: perciò,
vai di sequential art e di graphic novel! Parole nobilitanti
dal valore inverecondamente commerciale.
Ma sinché era il vecchio Will a promuovere se stesso, gli si
concede volentieri di raccontarsi al meglio anche a chi crede di sapere
e non sa. Piccoli trucchi a fin di bene, tutto sommato. Fumetti
o graphic novel, ci va bene tutto, basta che siano buoni. E
perdoniamo di buon cuore quindi tutti coloro che hanno prodotto graphic
novel di qualità, che potremmo chiamare tranquillamente
bei fumetti d'autore.
Quando un fumetto è brutto, tuttavia, è brutto e basta,
proprio come un brutto romanzo o un brutto film. Chiamarlo graphic
novel assume in questi casi qualcosa di squallido, come se stessero
cercando di rifilarci una patacca dietro un nome altisonante, mentre
perdoniamo a malapena ai fumetti che si meritano l'altisonanza di fregiarsi
di un simile appellativo.
Insomma, per farla breve, la parola graphic novel campeggia
sulla copertina di Bastogne, di Enrico Brizzi
e Maurizio Manfredi (Baldini & Castoldi Dalai),
urlata da una testa con elmetto tedesco, con tutta la sua inquietante
promessa di darci qualcosa di più di un semplice fumetto.
Ed è stato perciò con la disposizione d'animo di qualcuno
che si aspetta qualcosa di più, che mi sono accinto a leggere.
E' strano come sin dalle prime pagine io abbia iniziato a sentir aleggiare
sopra di me lo spirito di Filippo Scòzzari (che
è comunque vivo e sta bene, a quanto ne so, e gli auguro di proseguire
così a lungo). Sarà l'ambientazione bolognese anniottanta
del racconto, sarà il ricordo del suo Prima pagare poi ricordare,
che descrive ambienti non troppo lontani da questi. Saranno queste cose,
o anche altre; però, arrivato a un certo punto, ho capito di
colpo il perché di questa presenza così invadente agli
occhi della mia immaginazione.
Il fatto è che quello che avevo sotto gli occhi gridava vendetta.
E lui, Scòzzari, sicuramente sarebbe capace molto meglio di me
di trovare le parole per esprimerla. Poiché però io non
sono e non posso essere lui, devo proprio accontentarmi della mia pochezza,
e ci proverò con parole mie.
Non voglio parlare del Brizzi autore del romanzo. Non mi riguarda. O
forse, più semplicemente, non mi appassiona ma nemmeno fornisce
motivo di suscitare in me desideri di vendetta. E' il fumetto Bastogne,
quello che mi ha ferito, o meglio - scusate - la graphic novel.
Va detto che sulla prima pagina si nota la dedica (doverosa, perlomeno)
"a Paz e a Tamburo". Il problema è che nelle pagine
che seguono più che di citazione si dovrebbe forse parlare di
plagio. Ma sarebbe sbagliato parlare di plagio, perché il plagiatore
è un truffaldino, e non è la truffa il problema che incontriamo
qui. Il problema è semplicemente la pochezza, la scarsa capacità.
Manfredi (ma Brizzi è innocente del tutto, in questo?) si confronta
a ogni vignetta con i suoi modelli (90% Paz e 10% Tamburo) e perde,
perde, perde. Perde talmente di continuo che viene da domandarsi il
perché di questo masochismo stilistico.
Sarò un anziano fumettomane, ma, vignetta dopo vignetta, io non
vedevo altro che cattive copie delle invenzioni di Pazienza, sino a
un livello di imitazione così volgare che facevo fatica a crederci.
Un triste esempio: l'uso della carta a quadretti come base del disegno
in certe sequenze. In Pazienza era un'ostentazione di trascuratezza
che appariva coerente con i fatti raccontati; e finiva per rendere ancora
più drammatiche certe autodistruttive sequenze di Pompeo.
Qui cos'è? Un esercizio di stile? Una citazione? Ma non si cita
il medesimo autore per duecento pagine!! Quello che in Pazienza appariva
spontaneo e disinvolto (ed era probabilmente calcolatissimo, ma ars
est celare artem) qui diventa artificioso, falso.
Pagina dopo pagina, per chi conosce Pazienza (e credo che siamo tanti),
l'angoscia cresce. Le ritroviamo tutte, le sue idiosincrasie, ma là,
nel loro contesto naturale, erano altrettante invenzioni dissacranti.
Qui è un balletto di idee altrui usate in maniera più
o meno adeguata.
L'angoscia, nel leggere queste pagine, prendeva la forma seguente: ma
non è che Pazienza era davvero così anche lui? Non è
che a noi ci appariva tanto bravo perché eravamo giovani, e lui
ci prendeva di sorpresa? In fondo qui ci sono tutte, ma proprio tutte,
le sue trovate grafiche, una dopo l'altra, e non sono usate nemmeno
troppo a sproposito.
Mi sono andato allora a rileggere Giallo scolastico, tremebondo.
Ed è bastata la prima vignetta a farmi passare per sempre la
paura. Le vignette successive hanno confermato: Paz è comunque
un grande, e i suoi imitatori non sono Paz!
Ora sto cercando di liberarmi dallo spirito di Scozzari (comunque inimitabile,
perché allora c'era Paz, ma c'era anche lui) per essere un po'
più comprensivo. Mi dispiace per Manfredi (ma anche Brizzi avrà
la sua parte di responsabilità), e capisco che si volessero omaggiare
gli anni Ottanta; ma questa pedissequa riproposizione dello stile di
Paz non può che suscitare un immediato confronto con lui. E il
risultato è comunque disastroso! Tutto viene letto pensando a
come era invece divertente appassionante intrigante intelligente quello
che usciva dalla penna di Pazienza. E questo invece com'è? Se
gli autori fossero stati più bravi, sarebbe semplicemente un
po' deludente. Ma se gli autori fossero stati bravi avrebbero strizzato
l'occhio qua e là, e avrebbero seguito la loro strda,
e non la sua.
Così è semplicemente una pena.
Mi rifaccio gli occhi leggendo Gipi, S. (Coconino),
un racconto delicato come solo lui li sa raccontare, dedicato al ricordo
di suo padre, e a quello di una notte passata in tenda da soli, lui
bimbo con un altro bimbo. Un bel racconto alla Gipi, dove si giustappone
il presente al passato, e la fantasia alla realtà, tenero e incantato
- a cui si perdonano bene i lunghi testi scritti, perché, semplicemente,
ci stanno. E' un bel libro di quelli che, quando sono finiti, ne vorresti
subito un altro, e magari un altro ancora.
Ma Gipi questo pregio ce l'ha, e non si fa aspettare molto per il prossimo
volume, di solito.
Bello e delicato anche il Carnera di Davide Toffolo,
ristampato or ora da Coconino, col suo racconto sospeso tra il personale
e l'agiografico. Il racconto, cioè, insieme di una persona e
di un mito - cosa che, ultimamente, sembra una cifra frequente dei fumetti
di Toffolo.
Coconino pubblica anche un ponderoso fumetto coreano, Il ponte
di Nogunri, di Park Kun-woong e Chung
Eun-yong (oltre 600 pagine!!!). La prima cosa che mi viene
da dire è che con quest'opera il fumetto coreano si dimostra
tranquillamente autonomo da quello giapponese. Semmai una vaga parentela
si può vedere col fumetto francese. Ma il tutto è comunque
piuttosto originale, ben raccontato e molto ben disegnato.
In tempi di invasioni americane in Iraq, il tema di questa graphic
novel (onorevolmente tale - e l'espressione non compare né
in copertina né altrove!) non è affatto secondario. Vi
si racconta di una mostruosa strage di civili sudcoreani, avvenuta durante
la guerra di Corea (1950), ad opera degli alleati statunitensi. A leggere,
c'è davvero da rabbrividire, e a lungo.
Si tratta di un'opera di denuncia, bella e paurosa. Un vero romanzo
a fumetti; pardon, romanzo grafico.
19.gennaio.2007
Di Bam! Sock! Lo scontro a fumetti. Dramma e spettacolo del conflitto
nei comics d'avventura, di Valentina Semprini
(Tunué), non posso permettermi di dire molto, anche se lo considero
un ottimo libro. Non lo posso fare perché sono in qualche modo
coinvolto nell'impresa, avendo scritto la prefazione del libro. Posso
però riportarla qui. Sono parole mie, e non potrei esprimere
meglio di così quello che penso di questo libro:
"Una caratteristica di molte idee brillanti è quella di
apparire, dopo che hanno avuto successo, del tutto ovvie. Che cosa c’è
di più ovvio e semplice di una ruota, per esempio? Eppure, ci
sono volute decine di migliaia di anni per arrivare a questa idea ovvia
e semplice, e vi sono civiltà evolute e raffinate che ne hanno
persino fatto a meno. È il principio dell’uovo di Colombo,
l’idea a cui nessuno pensa prima, e che solo dopo essere stata
espressa viene trovata evidente da tutti.
Scrivere la storia del fumetto americano a partire da un punto di vista
particolare, quello della lotta, potrà forse sembrare un’idea
sufficientemente ovvia dopo essere stata esposta, ma anche a questa
non aveva mai pensato nessuno, prima d’ora. E questo libro mostra
brillantemente come invece la lotta sia un tema cruciale nel fumetto
d’oltre oceano.
Ricordo bene un commento spontaneo di Eco alla prima versione di questo
scritto, prodotta come tesi di laurea in Semiotica, che ebbi la fortuna
di seguire insieme a lui. Un giorno mi disse improvvisamente, senza
che fosse nel discorso, qualcosa come: “Ehi hai visto questa Semprini
quante idee interessanti è riuscita a tirar fuori da un tema
che sembrerebbe così ultraspecifico! Da non crederci…”
Il fatto è che questo tema apparentemente così specifico
ne nasconde un altro, che è quello – davvero generale –
della spettacolarità e dei suoi modi di manifestarsi. E alla
luce della maniera in cui viene raccontata la lotta, e del peso narrativo
che gli episodi di lotta hanno nell’economia delle storie, è
possibile ricavare uno spaccato dell’evoluzione del fumetto americano
e del suo modo di rapportarsi al proprio pubblico che sarebbe difficile
ottenere altrimenti.
Insomma: questo libro non contiene una ricerca specialistica su un tema
specialistico che chissà perché dovrebbe interessare qualche
lettore non accademico. Al contrario, in queste pagine viene raccontata
una raffinata storia del fumetto americano e del suo modo di costruire
il proprio spettacolo. Da Buck Rogers a Sin City, la rappresentazione
del conflitto ha avuto ruoli, modalità e pesi diversi nell’indurre
l’attenzione del lettore.
Questo libro possiede però, a mio parere, anche un secondo e
non minore pregio. È nato, dunque, almeno nella sua prima versione,
come tesi di laurea in Semiotica; e contiene perciò, evidentemente,
un saggio di impostazione semiotica. Nonostante questo, esso non richiede
ai suoi lettori di conoscere i principi di una teoria non sempre semplicissima,
e anzi talvolta persino un poco astrusa. Al contrario, questo libro
è leggibile da parte di chiunque, con in più il vantaggio
che numerosi concetti semiotici che qui vengono utilizzati con intelligenza
e senso critico sono anche spiegati bene, e resi accessibili con facilità.
È dunque con una certa invidia per un’idea brillante che
non ho avuto io, sviluppata poi in maniera ugualmente brillante e rigorosa,
che ho scritto queste quattro righe di presentazione, nella speranza
che il lettore voglia addentrarsi in questo libro, per scoprirvi quello
che vi ho scoperto anch’io."
Buona lettura!
Vai
a BLOG 2006
Se
qualcosa non va tecnicamente, segnalatelo a . |