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a BLOG 2006
28.dicembre.2005
Ho detto la mia su Yossel, di Joe Kubert. La potete leggere
all'indirizzo www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=54.
27.dicembre.2005
Ho letto con molto piacere Pasolini di Davide Toffolo (Coconino
Press 2005). Non è quello che si dice un testo facile, o agevole,
ma è un libro originale e appassionato, che affronta il compito
difficile di rendere per immagini una vicenda intellettuale fatta soprattutto
di parole. L'autore immagina di fare un'intervista a Pasolini, o a un
suo incredibile sosia, inseguendolo poi per tutta Italia, sino a farlo
entrare nei propri stessi sogni. E Pasolini parla con le proprie stesse
parole, con il suo tono impegnato e provocatorio.
Ne esce il ritratto di un dialogo impossible, ma ugualmente veridico,
realistico; e un Pasolini intenso, vero, autoriflessivo
e caustico.
Non c'è una vera storia, e questo rende ancora più ammirevole
il compito svolto da Toffolo: riuscire, a fumetti, a esporre un personaggio
fatto soprattutto di pensiero, senza banalizzazioni o semplificazioni
- anzi, riuscendo, con pochi mezzi, a costruire una forte tensione molto,
molto pasoliniana.
Non si tratta di un testo nuovo, in realtà. Era già stato
pubblicato da Biblioteca dell'immagine, di Pordenone, nel 2002; e poi
in Francia da Casterman, nel 2004. Ora Coconino approfitta del trentennale
della scomparsa di Pasolini per riproporlo con distribuzione nazionale.
Chi ama Pasolini (e io per primo) ringrazia. Ma ringrazia soprattutto
l'autore!
11.dicembre.2005
Sto rientrando da Romix, dove, in qualità di presidente della
giuria ho consegnato i premi ai migliori libri dell'anno. Li ho letti
e riletti, e di qualcuno ho anche già parlato, anche in questo
blog. Per questo non ho voglia di parlarne ora.
Mi scappa invece di dire alcune cose su un paio di libri delle edizioni
Tunué, nate recentemente ma già entusiasticamente attive
nel campo della critica fumettistica, avendo pubblicato in pochi mesi
la bellezza di otto libri. Hanno iniziato anche la pubblicazione di
una collana di fumetti, ed è stata una piacevole sorpresa trovarmi
tra le mani un testo del medesimo Davide Zamberlan di cui avevo segnalato
il blog disegnato vecio-montagna
all'inizio di quest'anno. Il libro si chiama Intermezzi, ed
è stata una seconda piacevole sorpresa scoprire che allora non
mi ero affatto sbagliato.
A differenza delle vignette del blog, le quattro brevi storie contenute
in questo libro non sono umoristiche. Sono altrettante riflessioni malinconiche
sul tema dell'amore, condotte con una leggerezza e una delicatezza che
non possono non colpire. Due di queste storie sono il remake di storie
altrui, una addirittura di una precedente storia a fumetti, di quella
medesima Vanna Vinci con cui Zamberlan ha dei debiti stilistici evidenti.
L'altra è la traduzione a fumetti di un racconto di Mishima.
Anche la resa di queste due storie è molto buona, ma le mie preferenze
vanno alle altre due, di cui Zamberlan è anche sceneggiatore.
Due storie brevissime, quasi senza trama, ciascuna la fotografia di
un momento che è la nascita di una passione. Poche parole, immagini
con un segno semplice e netto, una scelta molto ben fatta dei momenti
giusti da raccontare, e soprattutto un'idea molto originale rispetto
alla situazione.
Un solo rammarico: il tutto dura poco. Ma credo che a Zamberlan non
mancheranno occasioni per darci altre emozioni.
Richiede più tempo, è ovvio, la lettura del libro di Sergio
Algozzino, Tutt'a un tratto. Una storia della linea nel fumetto,
sempre di Tunué, evidentemente. Algozzino è un disegnatore
che si è messo a riflettere sul disegno degli altri e ha deciso
di organizzare e scrivere le proprie riflessioni. Il risultato è
questa piccola ma originalissima storia del fumetto, che ne ripercorre
un solo aspetto, il tratto grafico, la linea.
Non si tratta di una storia completa, ma nemmeno vuole esserlo. E' piuttosto
una carrellata su una selezione di autori significativi, attraverso
varie scuole dalle origini ai giorni nostri. Le osservazioni di Algozzino
sono quelle di un addetto ai lavori, che valuta bene la funzione del
tratto grafico nell'economia dei vari stili, e non mancano, qua e là,
varie osservazioni molto acute (come quelle sulla coerenza stilistica,
pregio caratterizzante dello stile grafico di Chester Gould).
Il problema di questo libro, comunque interessante e originale, è
che, probabilmente per poter compiere la propria panoramica con una
qualche completezza, l'autore ha spesso ridotto a poche righe lo spazio
dedicato a ciascun autore (con un certo numero di valide eccezioni).
Questo crea, nel complesso, una qualche monotonia espositiva, anche
là dove le osservazioni, nella loro brevità, sono acute.
Forse, analizzare un poco più a fondo un minor numero di autori
avrebbe potuto evitare questo piccolo problema. Ma allora non sarebbe
stata più una storia della linea.
Ho conosciuto Angelo Stano e Tanino Liberatore. E' sempre un po' inquietante
scoprire quanto gli autori assomiglino alle proprie creazioni...
A proposito, i premi di Romix? Eccoli.
Miglior Libro di Scuola Italiana: Appunti per una storia di guerra,
di Gipi (Coconino); Miglior Libro di Scuola Europea (italiani a parte):
Attorno a Sarajevo, di Pierre Wazem (Lizard); Miglior Libro
di Scuola Giapponese: Jinbe, di Mitsuru Adachi (Star Comics);
Miglior Libro di Scuola Anglo-americana: Wanted, di M.Millar,
J.G.Jones e P.Mounts (Panini); Premio Speciale della giuria ex-aequo
a: Yossel: 19 aprile 1943 di Joe Kubert (Free Books) e Fats
Waller di Carlos Sampayo e Igort (Coconino); Gran Premio: Blankets,
di Craig Thompson (Coconino).
20.novembre.2005
Sono stato un lettore affezionato delle storie di Elfo (Giancarlo Ascari)
sino dagli anni Settanta, quando uscivano su AlterAlter e Linus.
Mi piaceva la sua vena fantastica, ma soprattutto mi piaceva il filo
di malinconia che scorreva in tutte le sue pagine. Non storie tragiche,
e nemmeno tristi, tutto sommato. Ma storie di normale disillusione,
accettata con la calma di chi sa che la vita è così, e
non ci si può fare più di tanto - se non continuare a
provarci.
Elfo ci ha provato di nuovo negli ultimi anni, pubblicando le pagine
con le microstorie che ora si trovano raccolte nel volume Love Stores
(attenzione: è proprio Stores, e non Stories)
da Coconino. Ci ho ritrovato con piacere lo spirito attento e leggermente
amaro di allora. 80 pagine con altrettante storie di vita, in ciascuna
delle quali una persona, una vita, viene colta in un suo aspetto cruciale,
e descritta attraverso quello. Le storie sono diverse, autonome, ma
qua e là in ciascuna si può trovare un frammento di un'altra,
e si configura un mondo. In questo mondo, però, due solitudini
non fanno una compagnia, e ogni storia è relegata nella propria
solitudine narrativa - e l'insieme è uno spaccato di esistenza
leggermente amaro, un po' malinconico, proprio con quella cifra per
cui apprezzavo i fumetti di Elfo una volta, e li apprezzo ancora di
più oggi.
Craig Thompson avverte subito, nella prima pagina di Carnet di
viaggio, che "questo non è il 'prossimo libro', ma
un auto-indulgente progetto marginale, un semplice diario disegnato
mentre ero in viaggio tra Europa e Marocco". Ci si domanda, leggendone
le pagine, perché lo si sia pubblicato, questo libro che non
contiene una storia, e manifesta continuamente la sua natura di diario
quotidiano. In altre parole: perché dovrebbero interessarmi le
normali vicende di un giovane americano in gita nel vecchio mondo? Thompson,
oltretutto, è un discreto disegnatore - ma se si pensa alle emozioni
che è in grado di trasmettere Mattotti nei suoi schizzi di viaggio
ad Angkor, qui non ne troviamo nemmeno l'ombra. Non un gran libro, insomma.
Eppure nemmeno un libro da buttare via. Il fatto è che Thompson
possiede una qualità, che è quella che gli permette di
raccontare una storia lunghissima e normale come quella di Blankets,
senza farcela sentire come un mattone. Questa qualità è
la freschezza, cioè la capacità di mostrare aspetti di
sé e della propria percezione del mondo di cui normalmente non
ci accorgiamo, e che fanno sì che il lettore, dopo un po' che
legge le pagine di Thompson, abbia l'impressione di conoscerlo personalmente
da sempre. E così è anche in questo libro, richiestogli
da un editore francese interessato più a sfruttare la cresta
dell'onda del successo di Blankets che non a pubblicare libri
di qualità. D'altra parte, per realizzare libri di qualità
ci vuole tempo, e se di tempo ne passa troppo il pubblico si dimentica
di un autore.
Quindi meglio un fill-in, anche se non entusiasmante, specie se l'autore
è in grado ugualmente di suscitare tenerezza; e Thompson lo sa
indubbiamente fare. Inoltre, Thompson è così giovane da
lasciare ben sperare per il futuro. Attendiamo dunque il prossimo libro,
quello vero.
Non ha questa qualità, invece, Marco Corona, che è un
autentico spirito tragico, e pubblica la non storia di un europeo in
giro nel nuovo mondo, in In mezzo, l'Atlantico. Il suo Bestiario
padano era stato un inquietante catalogo di orrori, che riuciva
a strapparci diversi brividi di angoscia e di ammirazione, sospeso tra
le atmosfere alla Charles Burns e quelle alla Mezzo-Pirus. Qui Corona
ci riprova, ma la sensazione è che il suo tono tragico-orrorifico
(che nel volume precedente funzionava benissimo) sia qui un po' eccessivo
per il tema affrontato. Insomma, l'autore è bravo, ma la sensazione
è che tutto venga raccontato un po' sopra le righe, e che Corona
si pianga addosso un po' troppo.
Ho ricevuto il numero 2 di Canicola. Del numero 1 avevo parlato
qui sotto, il 14 aprile. L'impressione è più o meno la
stessa: la rivista è godibile, e propone autori interessanti
(qualcuno anche molto interessante). Ma la domanda che mi sorge spontanea
è sempre la stessa: è davvero necessario essere così
tristi? Non basta il livello di malinconia che troviamo nelle storie
di Elfo per essere dei narratori realisti? Sarà che la mia passione
nascosta è in realtà il fantastico - quello di David B.,
di Burns e di Mattotti, ma sempre fantastico è.
11.novembre.2005
Ho detto la mia su Nell'acqua, ultimo libro di Lorenzo Mattotti.
La potete leggere all'indirizzo www.golemindispensabile.it/
default3.asp?num=53.
2.novembre.2005
Leggo Il re bianco, di Davide Toffolo. E' un testo di un autore
maturo, che racconta con consapevolezza e con spessore. Qui il raccontare
di Toffolo prende la forma del diario, dell'autobiografia rispetto a
un fatto particolare. Il fatto è la morte del gorilla albino
dello zoo di Barcellona, unico al mondo, e sicuramente un personaggio
significativo per il narratore.
Toffolo ci porta con sé nel suo viaggio di omaggio al gorilla
morente, col suo modo di raccontare, sospeso tra resoconto intimo e
racconto esterno. Qua e là riesce a essere bravissimo, e a rendere
assai bene il senso di smarrimento che ti lasciano l'abbandono e la
morte.
Mi domando però perché non ci riesce sempre, e anche perché
io non sono riuscito a godere pienamente di questo libro che ha di sicuro
molte qualità. Credo che sia perché ho l'impressione che
Toffolo non riesca mai a staccarsi del tutto dalla sua personale versione
del patetico. E' come se continuasse a schiacciare sull'acceleratore
dei sentimenti anche là dove un poco di reticenza non guasterebbe,
in modo da evitare di cadere in quell'eccesso che a volte sa un poco
di banale.
Va comunque riconosciuto che in questo libro Toffolo cade in questo
errore molto meno che in passato. E che forse sono io a essere troppo
sensibile in questo senso. Qualcuno ha opinioni in proposito da sottopormi?
27.ottobre.2005
Il titolo è banale, d'accordo. E il contenuto mantiene per certi
versi quello che il titolo promette. Tutto è molto molto tarantiniano,
davvero un po' di maniera.
Eppure Pulp Stories di Diego Cajelli e Luca Rossi non è
affatto un libro da trascurare. Pur nei suoi eccessi e nella sua maniera,
ha una sceneggiatura mozzafiato che non ti lascia un momento di respiro,
è disegnato assai bene, con un tratto noir originale e incisivo,
riesce a far sentire vivi i suoi personaggi un po' estremi. Cade qua
e là negli eccessi del pulp alla Tarantino, ma poi si riprende
sempre piuttosto bene. Insomma, tutto sommato, una bella sorpresa.
Non è una sorpresa invece il libro di disegni di Lorenzo Mattotti
pubblicato da Nuages di Milano, Nell'acqua. Non lo è
perché è esattamente come mi aspetto un libro di Mattotti:
affascinante.
Non una storia a fumetti. Solo una serie di immagini su un unico tema
ossessivo, un uomo e una donna che fanno l'amore sospesi nell'acqua
del mare, con poche linee di costa intorno. Immagini a colori, realizzati
con tecniche diverse e immagini in bianco e nero, a matita, carboncino,
china.
Tante pagine di fulminanti epigrammi visivi, o, se vogliamo, di variazioni
quasi-musicali sul medesimo tema. E l'identità del tema esalta
le differenze, rende questo atto d'amore lungo quanto il libro, senza
che ce ne possiamo mai stancare, come se fossimo lì, pure noi.
22.ottobre.2005
Riprendo a scrivere in questo spazio, e magari riuscirò pure
a mantenere una cadenza passabilmente regolare. L'occasione me la dà
il fatto che tra 5 giorni (il 27 ottobre) sarà in libreria un
libro curato da me, sui fumetti. Si intitola La linea inquieta. Emozioni e
ironia nel fumetto, e contiene dieci saggi scritti da Sergio
Brancato, Umberto Eco, Ruggero Eugeni, Antonio Faeti, Gino Frezza, Francesco
Galofaro, Thierry Groensteen, Pascal Lefèvre, Alvise Mattozzi
e me stesso. Si tratta degli interventi tenuti al convegno omonimo che
si era svolto nel maggio 2004 a Bologna, organizzato dal Fondo Enrico Gregotti. Di questi interventi è possibile
anche ascoltare
la registrazione, sempre sul sito del Fondo Gregotti, ma per il
volume gli interventi sono stati riscritti, e sono evidentemente molto
più maneggevoli che non nella forma di un file audio. L'unico
vantaggio che a questo punto rimane alle registrazioni disponibili nel
sito è che contengono anche le discussioni, che nel libro non
avevano modo di entrarci. L'invito è perciò a leggervi
gli interventi, e poi ad andarvi ad ascoltare come se ne è discusso.
Il libro affronta, a più voci, un argomento che a me è
particolarmente caro, e non solo rispetto al fumetto. Il tema è
quello di come fa un testo (nello specifico, qui, un testo a fumetti)
a produrre emozioni nel proprio lettore. Perché, cioè,
ci appassioniamo alla lettura - o, viceversa, perché ci annoiamo
quando un testo non ci prende? Che relazione c'è tra le emozioni
che il testo racconta e quelle che produce nel suo lettore?
Durante il convegno del 2004 ne discutemmo per due giorni. Ora le diverse
voci del convegno si trovano nel libro, cristallizzate, ma rese accessibili
al mondo.
A proposito di mondo, devo dire anche qualche parola sul festival di
Babel, tenutosi
ad Atene dal 22 al 25 settembre. Io ero là ad accompagnare una
mostra di parte delle opere del Fondo Gregotti.
Babel è una rivista greca di fumetti d'autore (dovremmo
dire la rivista greca di fumetti di autore: non so se sia l'unica,
ma è certamente la più antica e importante), che ogni
anno da dieci anni a questa parte organizza un festival di quattro giorni
che ha al suo centro il fumetto. Non è, come sono da noi le varie
manifestazioni fumettistiche, un evento per addetti ai lavori. Oltre
alle mostre e iniziative dedicate ai fumetti ci sono concerti e spettacoli,
che attirano decine di migliaia di persone.
Quest'anno una pioggia torrenziale ha ostacolato le due prime giornate
(tanta acqua tutta in una volta non si vedeva ad Atene da tempo!) ma
poi il festival si è ripreso e si è concluso in gloria.
Oltre al piacere di passare alcuni giorni ad Atene (dove non ci sono
solo fumetti), voglio solo dire che tanta gente a una manifestazione
fumettistica l'avevo vista (forse) solo ad Angoulème. Insomma,
sono stato un po' invidioso. Onore al merito, quindi, degli amici di
Babel.
29.maggio.2005 (da Buenos Aires, Argentina)
Basta confrontare questa data con la precedente per verificare che è
un mese e mezzo che non aggiungo nulla a questo blog. Ma una delle ragioni
era anche che per poter venire qui c'erano una sacco di cosa da sistemare
e preparare, sia per quello che faccio qui, sia per quello che, poiché
sono qui, non posso fare in Italia. Comunque, sono a Buenos Aires da
stamattina: l'aereo è atterrato alle 6.30, alle 8 ero in albergo,
alle 9 ero già in giro a guardarmi attorno. Ora sono le 16.30,
e tra poco vedrò i primi tra i miei ospiti, ovvero quelli - appunto
- di Buenos Aires (domattina devo già ripartire per Cordoba,
e poi Montevideo e Rio Gallegos: a Buenos Aires tornerò solo
tra 11 giorni).
Poiché in questo blog ho sempre parlato di fumetti, mi sembra
giusto iniziare con quel poco che ho potuto osservare oggi guardandomi
attorno. Buenos Aires è strapiena di edicole, forse ancora di
più delle nostre città, dove già non sono poche.
Ma se il nostro sguardo corre veloce sulle pubblicazioni esposte in
un'edicola di Buenos Aires, possiamo credere anche di essere a Roma
o a Milano: l'effetto complessivo è esattamente lo stesso. Questo
non è dato solo dal fatto che la grafica delle copertine è
la medesima di quella delle nostre riviste, ma anche dalla sensazione
che la distribuzione dei tipi di pubblicazioni sia grosso modo la stessa:
molte riviste femminili, molto porno, molti gadget, pochi fumetti, e
tutti giapponesi e americani.
Sì, siamo in una delle patrie del fumetto mondiale, in cui il
fumetto ha avuto un peso culturale enormemente maggiore che in Italia
- e in edicola si vedono solo fumetti americani e giapponesi! Solo dopo
molti tentativi ho scorto un volume di Alberto Breccia, una ristampa
del vecchio "Vito Nervio", impilata con altri classici di
un'edizione che sembra essere il corrispondente locale delle pubblicazioni
fumettistiche di Repubblica da noi.
Quando finalmente sono riuscito a entrare in una libreria (è
domenica oggi, e moltissimi negozi sono chiusi), le sezione fumetto
era irrilevante, dominata da Quino (almeno lui!) e da un'altra roba
di cui non ricordo il nome - e non lo ricordo perché in un'occasione
precedente avevo già deciso che non valeva la pena di ricordarlo.
Per ora, quanto a fumetti qui, c'est tout. Ma sono certo che
scoprirò che ci sono delle verità nascoste, e che non
è perché qui non se lo fila nessuno che Enrique
Breccia vive come un eremita e disegna per la DC Comics!
Quanto al resto, fumetti a parte, Buenos Aires mi appare intrigante,
e assolutamente familiare, pur senza esserci mai stato. Ricorda un poco
Barcellona, piena com'è di architetture moderniste spesso davvero
notevoli. Nonostante siamo alle porte dell'inverno, oggi siamo sopra
i 20 gradi. Stamattina c'era il sole e adesso piove. Ma hanno detto
che verrà più freddo (15 giorni fa i gradi qui erano 6).
Io mi sono portato dietro solo roba invernale e sto soffrendo il caldo
- ma siccome devo anche andare in Patagonia, là mi servirà
di sicuro.
In compenso ho mangiato un'ottima bistecca, bevendo una delle migliori
birre che mi siano mai capitate, e spendendo pochissimo. Tutto qui costa
più o meno tanti pesos quanti euro costa da noi, solo che ci
vogliono più di tre pesos per fare un euro. Per esempio, le arance
al chilo, da noi 2 euro, qui 2 pesos. Per cui mi sono scatenato con
lo shopping (non di arance), da bravo europeo. (continua)
14.aprile.2005
Canicola, rivista a fumetti realizzata da un piccolo gruppo
di autori di area bolognese, coordinati da Edo Chieragato, tenta la
strada non facile del racconto intimista o surreale e della poesia per
immagini e parole. Segni grafici semplificati, a parte quello "sporco"
di Andrea Bruno, ma non semplici; vicende elementari, quasi non vicende,
ma sempre all'opposto del banale. Molto silenzio, molti spazi bianchi,
molto spazio per la riflessione.
Belle le storie di Edo Chieregato-Michelangelo Setola e di Amanda Vähämäki;
inquietanti quelle di Giacomo Monti e Andrea Bruno. L'intero racconto,
in tutte queste storie, gira attorno a un solo evento centrale, che
non è nemmeno poi così rilevante. Tutto il resto è
semplice quotidianità che si dipana, con un po' di tristezza,
talvolta, ma soprattutto con il senso della vita che scorre, con i suoi
sempre incerti piaceri.
Perché un fumetto così silenzioso, così pieno di
vuoti? C'è davvero bisogno di contrapporre tanto bianco e tanta
immobilità all'intreccio di segni colori e movimento frenetico
che caratterizzano di solito i fumetti più commerciali? Sicuramente
troviamo qui rispecchiati degli aspetti del vivere che quel tipo di
fumetto dimentica, trascura, non reputa importanti. Ma quel fumetto
vuole trascinarci, nella distrazione, lontano da noi, ci vuole "divertire",
anche nel senso della diversione, dell'andare altrove. Questo fumetto,
al contrario, vuole scavare dentro, non divertire ma descrivere, testimoniare.
Per questo, e perché lo sa anche fare con delicatezza e con gusto,
vale la pena di leggerlo.
Ma se ripenso a David B. mi accorgo che esistono pure altre strade per
farlo, e che "divertire" non è sempre e soltanto "divergere".
Scrivo queste note sul treno del ritorno da Roma, dove ho tenuto un
intervento a un seminario su Alan Moore, organizzato da un simpatico
fumettologo (e sceneggiatore) che si chiama Manfredi Giffone, per il
corso del suo docente di Iconologia, il prof. Manfredo Guerrera. Ho
parlato, in questo seminario, delle tecniche narrative di Moore nella
serie di episodi di Swamp Thing da lui sceneggiati tra il 1984
e il 1987. Ho accettato la proposta, a suo tempo, perché ricordavo
la lettura di quegli episodi come un'esperienza molto intensa, e perché,
quando si parla di Alan Moore, l'attenzione va sempre ad altre storie,
da Watchmen (ovviamente!) a V for Vendetta a From
Hell - e non ricordo di nessuno che si sia dilungato a lavorare
proprio su Swamp Thing.
Eppure io ci avevo trovato un Moore già abilissimo, ma ancora
in buona parte libero dalle geometrie narrative di Watchmen
e delle storie successive, geometrie che sono una sua ricchezza ma a
volte anche un suo limite, e producono sempre l'impressione che la storia
sia stata progettata "a tavolino". Ora, non è che l'essere
progettata"a tavolino" sia a priori un difetto - però
qualche volta Moore, che pure bravo lo è davvero, sembra soprattutto
volerci dire: guardate come sono bravo a mettere insieme questi pezzi
così disparati, a costruire questo caleidoscopio narrativo che
pure sta meravigliosamente insieme. Per capire a cosa mi riferisco,
rileggetevi con attenzione il capitolo "Fearful simmetry"
di Watchmen (che pure è uno dei più belli), che
sembra una vera e propria dichiarazione di poetica.
Insomma, mi sono riletto tutti i quasi cinquanta episodi di Swamp
Thing scritti da Alan Moore, alla ricerca dei suoi trucchi narrativi,
per capire "come fa". Eccone quindi alcuni, tra i più
usati:
1. cambiamento del soggetto dell'azione: il protagonista non è
Swamp Thing, ma qualcun altro; spesso è la sua compagna Abigail,
ma spesso anche qualche altro personaggio occasionale; a volte addirittura
è l'antagonista. Swamp Thing diventa qui un testimone o un personaggio
secondario
2. cambiamento del punto di vista, o focalizzazione narrativa: l'attenzione
non è sempre riservata al protagonista della singola storia,
né al protagonista della serie; si sposta piuttosto con facilità,
facendoci vivere le emozioni di diversi personaggi, a volte anche degli
antagonisti
3. cambiamento della voce narrativa: le storie sono a volte in terza
persona, a volte raccontate da un personaggio che raramente è
Swamp Thing stesso. Spesso la voce narrativa cambia più volte
nel medesimo episodio
4. frequenza di montaggio parallelo di vicende apparentemente indipendenti,
che solo in seguito si riveleranno collegate
5. presenza di episodi in cui "non succede niente o quasi",
ma in cui viene sancita una situazione che è stata costruita
attraverso diversi episodi precedenti: in questo modo si dà apparenza
unitaria a una serie di episodi che pure raccontavano storie autonome,
e avevano solo pochi elementi di continuità. Con questi episodi
chiave si dà valore agli elementi di continuità e si costruisce
l'effetto di "saga".
Con questi espedienti si costruisce una varietà di situazioni
narrative. In qualche modo il racconto diventa "polifonico",
perché gli stessi eventi vengono suggeriti secondo punti di vista
e focalizzazioni diverse e anche all'interno di narrazioni diverse (quella
locale e quella generale, la propria e il contrasto con quella parallela)
che li rivestono di un senso diverso.
3.aprile.2005
Iceberg,
Festival bolognese dei Giovani Artisti, si è appena concluso.
Avendo avuto l'onore di far parte della giuria che ha selezionato i
vincitori del concorso per la sezione fumetto (insieme con Gianluca
Costantini e Omar Martini), vorrei parlare un po' degli autori premiati.
Anzi, delle autrici - visto che, senza nessuna preconcetta intezione
da parte dei giurati, e anzi, senza proprio far caso in sede di giudizio
al sesso dei prescelti, sia la premiata che le tre segnalate sono tutte
di sesso femminile.
Dirò di più. Mentre non è stato difficile restringere
la rosa dei lavori interessanti ai primi quattro, non è stato
invece altrettanto facile decidere tra questi quale fosse il migliore.
Iniziamo dalle segnalate. Sara Carpani ha un segno barocco e tortuoso,
e ama le anamorfosi e i contrasti cromatici. Però racconta una
storia lineare e molto ben costruita, con un bellissimo crescendo di
tensione, e una finale (ambigua) liberazione. La sua inesperienza -
e la cosa è ragionevole - riguarda il rapporto tra il disegno
e le possibilità della stampa; per cui le sue immagini risultano
un po' sacrificate nella pubblicazione. Un peccato da poco, a cui, nel
futuro, si può rimediare facilmente.
Amanda Vähämäki, finlandese trapiantata a Bologna, racconta
storie di solitudine, nella tradizione di autori come Tatsumi o Tomine.
Ha un segno semplice ed efficace, e la capacità di inventare
piccole metafore veramente inquietanti. Un'autrice da brivido, di quelli
veri, che non hanno bisogno di cadaveri squartati, perché c'è
ben di peggio anche nel vivere quotidiano.
Per fortuna, ci risolleva Agata Matteucci, che ben dimostra nei suoi
fumetti la passione per quelli di Andrea Pazienza e Leo Ortolani, e
propone una striscia intitolata "Leo e Lou", che mette in
scena i dialoghi di una coppia di giovani fidanzati. C'è una
fine introspezione psicologica, un disegno fresco e molto espressivo,
e una notevole capacità umoristica in queste strisce. Speriamo
di vederne altre, presto, in giro.
Francesca Tancini ha vinto il premio con una storia intitolata "Corpora",
che racconta una leggenda su Carlo Magno infatuato di una popolana.
C'è una bellissima capacità costruttiva nelle sue tavole,
e un bel ritmo narrativo nel loro susseguirsi. In sede di giudizio,
io sono rimasto colpito soprattutto dalla prima
pagina della storia, in cui spazio, movimento delle figure e organizzazione
grafico-narrativa complessiva della pagina a fumetti sono impostate
in maniera davvero originale ed efficace, che ricorda certe prime pagine
dello Spirit del grande Will Eisner.
Tutte e quattro queste autrici, con le storie premiate, sono presenti
nell'allegato Speciale Iceberg a numero 6 della rivista Inguine
Mah!gazine (info sul sito www.inguine.net).
2.aprile.2005
Continuiamo con Coconino (non è solo perché pubblicano
sempre libri di qualità che parlo soprattutto di Coconino; è
che loro me li spediscono e gli altri no; e quando te li trovi in casa
li leggi comunque - mentre se li devi comperare cerchi di capire prima
se vale la pena o no: purtroppo non si può comperare tutto! questo
comunque spiega, almeno a me, e in parte, perché gli editori
italiani di fumetti, anche bravi, ogni tanto falliscono: se non mandano
i libri a chi può fare le recensioni, si alienano di sicuro una
certa quantità di vendite. Una politica miope, tantopiù
considerando che i recensori di fumetti in Italia non sono di sicuro
tanti come quelli di romanzi, e ci vorrebbe davvero poco a raggiungerli
tutti).
Insomma, continuiamo con Coconino, ma in coproduzione con Black Velvet.
Voglio dire qualche parola su Louis Riel, di Chester Brown,
che mi ha illuminato su una pagina a me sconosciuta della storia della
colonizzazione del Canada nel XIX secolo. Un libro intrigante, e non
solo per la documentazione storica che dimostra (con tanto di apparato
di note bibliografiche, di mappe geografiche e altri riferimenti), ma
perché racconta con delicatezza e passione una storia affascinante
di rivendicazione politica e follia personale.
A rigore, dovremmo considerarlo una versione deviante del Western, perché
l'ambientazione è simile, sebbene spostata un po' più
a nord. Ci sono i coloni, le grandi foreste, il freddo, la ferrovia
che avanza, le giubbe rosse. Ma anche con questi elementi Chester Brown
racconta una storia che con il Western non ha proprio niente a che fare,
una storia di interessi politici generali che schiacciano una piccola
comunità del west canadese. E la comunità, capeggiata
da Louis Riel, si ribella al governo, rivendicando i propri diritti.
Il racconto è secco, senza sbavature, oggettivo a dispetto del
disegno lievemente caricaturale e semplificato al massimo. Ma la personalità
di Riel emerge con grande chiarezza, come pure quella di coloro che
gli stanno attorno.
Insomma, non è solo una pagina di Storia che li legge qui, è
anche una storia umana e personale di notevole spessore.
Con tutta l'ammirazione per Chester Brown, però, le mie preferenze
vanno a Joann Sfar, di cui è appena uscito il secondo volume
di Professor Bell ("Le bambole di Gerusalemme"),
che mi trovo di fronte più o meno insieme all'altro. Questione
di gusti personali, intendiamoci. Ma la visione smagata e ironica che
Sfarr ha del fantastico e del mistery mi rendono i suoi libri una specie
di dessert di cui sono sempre goloso.
Sarà pure la solita storia di demoni che diventano sentimentali,
e di finti duri dal cuore d'oro, ma Sfar la racconta con tale leggerezza
e ironia, infiorandola di imprevedibili colpi di scena con repentini
cambi di situazione, che mi viene quasi voglia di applaudire, ogni tanto.
Un applauso virtuale, diciamo, ma non meno meritato.
Insomma, se usiamo Gipi o la Giandelli (di cui ho parlato qualche giorno
fa) come primo piatto, Chester Brown come piatto forte, e Sfar come
dessert, avremmo un sostanzioso e godibilissimo pranzo fumettistico.
L'indigestione? Be', quello è un rischio che si corre sempre.
30.marzo.2005
Ho detto la mia su Orme, il bimestrale diretto da Silvano Mezzavilla.
La potete leggere all'indirizzo www.golemindispensabile.it/
default3.asp?num=47.
25.marzo.2005
Gipi e Gabriella Giandelli hanno stili grafici molto diversi. La Giandelli
è minuziosa, ama le curve rotonde e un po' naif, le piacciono
le superfici compatte e morbide. Gipi è nervoso ed essenziale,
gli piacciono i nasi aguzzi e i colori tenui e incerti degli acquarelli.
Quando raccontano le loro storie li ritroviamo però improvvisamente
molto vicini, con il medesimo spirito di malinconia fantastica e un
po' trasognata, ma con la medesima spietata precisione nel raccontare
le emozioni.
Me li trovo accostati in due albi appena pubblicati da Coconino Press:
Gli innocenti, di Gipi, e Interiorae della Giandelli.
Bastano le copertine a rendere chiare le differenze. L'immaginario di
Gipi è campagnolo e provinciale, fatto di grandi spazi aperti,
di cielo e di nuvole, di vite che non hanno una direzione definita.
Quello della Giandelli è cittadino, fatto di alti muri e di spazi
angusti e costretti, in cui le vite sono strette in destini troppo ben
definiti, da cui si esce quasi solo per sbaglio, o nei sogni.
I due albi sono entrambi bellissimi. Se Gipi e la Giandelli scrivessero
romanzi invece di storie a fumetti ci sarebbero stuoli di critici infervorati,
bagarre pubblicitarie e pile di volumi da Feltrinelli. Avendo scelto
la via stretta del fumetto, dovranno limitarsi a me e pochissimi altri,
che si guardano con aria di complicità nelle manifestazioni del
settore, stando attenti a non confondersi troppo con i patiti di manga
e di supereroi.
Non racconterò di che cosa questi fumetti raccontino. Mi piace
solo sottolineare come in tutte e due le storie, per quanto diverse
siano tra loro, c'è lo sguardo di un innocente sulle emozioni
- capace di restituircele intense e profonde. Profumate di vita, mi
verrebbe da dire. Due profumi diversi, ma non meno intensi, e non meno
conturbanti.
10.marzo.2005
E' un vero piacere leggere questo numero di dicembre (n.25) di Mondo
naif, delle edizioni Kappa. E' stato un piacere anche per i numeri
precedenti, a dire la verità, ma questo, per qualche ragione,
mi ha fatto venir voglia di scriverne.
Sarà forse la storia di Frederik Peeters, che con garbo e ironia
racconta le tre vicende intrecciate di un killer in crisi, di uno che
lo vuole fare fuori, e di una scrittrice russo-americana, tutti e tre
a bordo di un aereo che vola verso New York. Il dramma c'è, ed
è anche grosso, ma sembra che nessuno se ne accorga, e anche
il lettore ci arriva piano piano, quasi incredulo che tanta normalità
possa nascondere qualcosa di così grosso.
Ma non è solo Peeters. La storia di Gabos e Amaroli è
intrigante e surreale, e funziona bene a dispetto dell'assurdità
dell'assunto di partenza. Segno che gli autori sanno bene il fatto loro.
Ma chi conosce Otto Gabos sa che, da tempo, si tratta di un nome che
è una garanzia.
Direi che ormai si può dire lo stesso anche dell'accoppiata De
Giovanni - Accardi, anche se forse questa storia così piena di
mistero avrebbe sofferto di meno se fosse stata pubblicata a spezzoni
più lunghi.
Mooolto divertente e molto ben costruita la storia con cui si apre il
numero, dell'americano Derek Kirk Kim. Confesso che l'ho letta prima
di leggere il nome dell'autore, e lo credevo italiano e della scuderia
dei Kappa Boys. Invece, né l'uno né l'altro. Ma evidentemente
la scelta anche di autori esteri si fa sulla base di quello che ci piace.
Dunque, grazie ai Kappa per questa scoperta.
Kokor, qui al suo secondo episodio, mi sembra già un classico,
con lo stesso spirito irriverente di Boucq, ma forse un poco più
romantico.
Niente male nemmeno le paginette della De Domenico, e dell'esordiente
Macaione. Ma davvero fulminante è la vignetta, nell'ultima pagina,
a pubblicità della pubblicazione de La bambina filosofica
di Vanna Vinci, in cui la stessa bambina filosofica, abbigliata da vamp
su un canapé, dice "Quando sono buona lo sono molto, ma
quando sono cattiva sono meglio".
Ancora due parole su un'altra lettura di ieri sera, il numero 12 di
Black Hole, di Charles Burns, appena uscito negli USA. Brividi
di inquietudine, di freddo, anche se in tutto l'episodio non succede
praticamente niente - e qualche salto temporale rimane oscuro pure alla
rilettura. Ma se qualcuno ricorda la sigla del primo episodio di Twin
Peaks di Lynch, con quell'incedere lento di immagini che, pur apparendo
normali, tradiscono la presenza di qualcosa di orribile, sappia che
ritroverà qui quel ritmo e quella progressione di inquietudini.
Il buco nero che dà il titolo alla serie è quello delle
angosce dell'adolescenza. Non è detto che le cose terribili vi
accadano davvero, ma non è detto nemmeno che se ne esca vivi.
Charles Burns non è straordinario solo come disegnatore.
28.febbraio.2005
Qualche tempo fa, prima ancora che lo leggessi, mi è stato proposto
di aderire a una mozione contro il libro di Franco Restaino, Storia
del fumetto, da Yellow Kid ai manga. Ovviamente, non conoscendo
ancora il libro, non ho aderito - ma ho promesso che appena l'avessi
letto non avrei nascosto la mia opinione. Ora l'ho letto, e ho pubblicato
la mia opinione su Golem
- L'indispensabile, a questa pagina. Buona lettura.
30.gennaio.2005
Un paio di settimane senza grandi emozioni fumettistiche. Ordinaria
amministrazione di lettura. Un po' di Bonelli - il Magico vento
di Manfredi si legge sempre volentieri, anche se con qualche alto e
basso stagionale; e si riconosce sempre con piacere che si tratta della
stessa mano che trent'anni fa scriveva "Ma chi ha detto che non
c'è". Nathan Never è sempre più ossessivo
e più dark (sempre più Batman, in questo senso);
non ha la forza del fumetto di Manfredi, ma in fin dei conti si legge
abbastanza volentieri lo stesso. Sul comodino giacciono il Napoleone
di Ambrosini e Julia di Berardi, in attesa di gradita lettura,
insieme ad altri.
Un po' di comic book, salvo scoprire che Tom Strong
non lo scrive più Alan Moore (speriamo bene!). Hellblazer
a volte va e a volte mica tanto, e ho l'impressione che gli ultimi numeri
siano tra questi. Milligan di The Human Target non è
male, anche più leggibile del solito. Resta molto altro sul comodino,
ma evidentemente, al momento, non mi ha suscitato profonde emozioni.
Piuttosto, ho ricevuto un regalo. Un numero speciale di una rivista
letteraria californiana, dedicato al fumetto (McSweeney's Quarterly
Concern, no.13). Un'autentica chicca antologica di tutti i fumettisti
intellettuali statunitensi, da Spiegelman a Tomine, a Kaz a Burns a
Panther a Katchor a Crumb a Seth agli Hernandez a Sacco (e non finisce
qui). Un volume molto originale, in cui persino la sovracoperta è
una pagina di fumetti (si sfila, si spiega aprendola, e diventa un quattro
pagine di grande formato - tipo supplemento domenicale di un quotidiano),
e nelle sue pieghe ci sono pure due ulteriori librettini. Elegante,
bello, pieno di bei fumetti ben stampati. E faticoso, da leggere, come
sono spesso gli americani che devono distinguersi dagli autori di supereroi.
Molte volta il gioco vale la candela, e la fatica è compensata
dal piacere. Qualche volta si rimane un po' perplessi (ma forse sono
io che non capisco).
15.gennaio.2005
Lunedì prossimo, il 17, a Milano, sono stato invitato a presentare
una
serata in cui si vedranno i cortometraggi di Dave McKean. Non li
conoscevo, ma conoscevo bene il loro autore come illustratore e fumettista.
E ho quindi accettato, con un margine di rischio che ritenevo davvero
piccolo.
Adesso che ho visto i cortometraggi, so con certezza che avevo ragione.
Continuo a pensare che McKean sia molto più bravo come illustratore
che come fumettista, ma adesso so che anche a fare i film è più
bravo che a fare i fumetti.
Nei fumetti - i suoi, voglio dire, quelli che produce da capo a piedi,
non quelli che Gaiman scrive e lui disegna - non riesco a perdonargli
sino in fondo due vizi: uno è quello di parlare troppo; l'altro
è un vizio comune anche ad altri grandi illustratori (come Stefano
Ricci, per esempio), che è quello di fare l'illustratore anche
quando disegna fumetti. C'è differenza tra disegnare per l'illustrazione
e disegnare per il fumetto: nel primo caso ogni illustrazione è
un'opera unica, che si fruisce per conto proprio. La complessità
(non la complicazione) è in questo caso una
dote: un'illustrazione che ha diverse chiavi di lettura, e che ti lascia
con l'impressione che ci sia ancora tanto da scoprire in lei, è
un'illustrazione riuscita. Tali sono le copertine di Sandman,
e tante altre straordinarie immagini create da McKean. Quando si disegna
per il fumetto, le singole immagini non sono autonome, ma fanno parte
di una sequenza, che funziona bene non come semplice somma degli effetti
delle singole immagini, ma solo se riesce a costruire un ritmo complessivo,
una fascinazione globale data dal tutto.
A questo scopo, talvolta le immagini complesse vanno bene, e talvolta
vanno malissimo: dipende dal ruolo che hanno nell'economia complessiva.
Il fumetto non è una sequenza di illustrazioni; ma un testo narrativo
su base visiva. Spesso, i fumetti di McKean sono invece prima di tutto
sequenza di immagini una per una straordinarie, ma il risultato è
evanescente. Lo preferisco, quando fa i fumetti, come disegnatore al
tratto. Costretto a non sfruttare le sue virtuosistiche capacità
tecniche, lo spirito del fumettista salta fuori, e si vede che lo sa
fare!
Ma veniamo ai film. Io temevo che succedesse, con i film, qualcosa di
simile a quello che succede con i fumetti. E invece il mio timore era
infondato. Certo, non si tratta di film di azione di stampo realistico:
il mondo magico delle illustrazioni di McKean è interamente presente,
e la sua verve combinatoria e ossessivamente collezionistica si riconosce
benissimo.
Sarà che nel fumetto un'immagine complessa rende la lettura più
lenta e sovraccarica, mentre nel film, che scorre comunque alla sua
velocità e non può rallentare, un'immagine complessa semplicemente
non viene colta nella sua complessità - e quindi non rallenta
il ritmo. Semmai, ci lascia con l'impressione di non avere colto tutto,
un po' come nell'illustrazione: ma questo è positivo.
Similmente, il racconto verbale: nel fumetto bisogna leggere tutto il
testo verbale per poter procedere, e anche questo, rendendo più
lenta la lettura, rallenta il ritmo complessivo. Ma nel cinema le parole
scorrono insieme alle immagini; le si ascolta mentre le immagini vengono
guardate. E quindi non c'è rallentamento: al massimo qualcosa
sfugge, ma se ciò che resta è sufficiente a costruire
l'atmosfera, pazienza, il testo funziona lo stesso!
E, quindi, funzionano, questi cortometraggi di McKean, funzionano eccome,
e permettono alle doti combinatorie dell'illustratore di confrontarsi
anche con il movimento. Sono spiritose e sognanti, queste cinque miniature.
A prima vista, ricordano un po' Greenaway, perché l'amore per
il mistero e per la scrittura i vecchi libri e tutto ciò che
è materico e un po' decadente è davvero lo stesso. Ma
McKean non è cerebrale come Greenaway. Il suo mondo di sogni
e misteri è parente piuttosto di quello favolistico e incantato
di Gaiman, alla ricerca di una leggerezza irraggiungibile - in cui persino
i fantasmi possono trovare il perduto amore, se li si aiuta un poco;
e nella settimana prima della creazione un Dio annoiato può giocare
a carte col diavolo.
Ciò che piace, a McKean, è ammantare le cose di una veste
che non è la loro, renderle desuete, consunte, farle appartenere
a un regno che non è il loro, accostarle ad altre cose a loro
volta straniate. Tutto questo è facile da fare se lo si pensa
come gioco fine a se stesso, ma le illustrazioni di McKean arrivano
a essere straordinarie perché i loro accostamenti appaiono sempre
straordinari, rivelatori, come finestre spalancate su un mistero che
non diventa meno fitto per questo, ma che comunque si rivela a noi almeno
come tale, come mistero. McKean sembra cioè volerci mostrare,
in qualche modo, il mistero che è nascosto nelle cose - inquietandoci,
ma senza spaventarci. Il mistero, ci sembra dire McKean, fa parte di
noi e del fascino del mondo.
Ecco: i suoi film dicono proprio la stessa cosa. Sono illustrazioni
dilatate nel tempo, a cui è stata data una trama, un sonoro.
Andrebbero visti e rivisti ogni tanto, così come vale la pena
di riguardare le copertine di Sandman, anche quando non abbiamo
il tempo di rileggerci le storie di Gaiman (che quelle pure, potendo,
andrebbero tutte rilette).
9.gennaio.2005
Mentre ero in ferie è morto Will Eisner. Mi ha avvertito un amico
per SMS. Ho fatto fatica a crederci. Mi sono reso conto che, dentro
di me, lo consideravo immortale. Lo consideravo già un mito nel
1970, quando avevo 13 anni e leggevo le storie di Spirit su Eureka.
Quelle storie erano state pubblicate negli anni Quaranta, cioè
in un'altra era, e per me, allora, il loro autore apparteneva a quell'epoca,
e lo pensavo, allora, morto o vecchissimo. Mi sbagliavo sulla sua età,
ma non sul suo essere un mito. Non sapevo che aveva poco più
di vent'anni quando inventava The Spirit. Ritrovarlo, con le
sue magnifiche storie dagli anni Ottanta in poi, è stato come
un tuffo improvviso nella leggenda. Ma Eisner non era un uomo del passato.
Ha segnato profondamente la storia del fumetto per due volte, sia la
prima, allora, che la seconda, ora. Mi segnalano che nei suoi ultimi
anni ha prodotto tanta roba che gli editori non facevano in tempo a
pubblicarla. Adesso, il tempo l'avranno. Forza, Andrea Plazzi, speriamo
tutti in te! Permettici di godere ancora dei sogni del grande Will!
Mentre ero in ferie mi è arrivata un'email. Me l'ha mandata
un fumettista che legge questo Blog, per segnalarmi il suo, a fumetti,
e sui fumetti. Ora, tornato, me lo sono andato a vedere, e credo che
valga la pena di condividerlo. Il fumettista si chiama Davide Zamberlan,
e il blog si trova all'indirizzo http://vecio-montagna.splinder.com/.
Da lì, si può passare anche al suo sito, con notizie su
di lui. Buon divertimento!
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