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28.dicembre.2006
Scorcio di fine anno. Approfitto di queste giornate di semilibertà
per buttare giù qualche riga sulle mie ultime letture.
Inizio, più o meno a caso, dal quarto volume della ristampa (Black
Velvet) de Il commissario Spada, di Gianluigi Gonano
e Gianni De Luca. Pubblicato originariamente su Il
Giornalino delle cattoliche edizioni Paoline (e a quell'epoca acquistabile
solo nelle chiese), Il commissario Spada continua a stupirmi
per la sensibilità e l'intelligenza delle trame da un lato, e
per l'inventività dei disegni e delle soluzioni grafico-narrative
dall'altro. Dal mio punto di vista è un peccato che storie così
belle apparissero in un contesto così caratterizzato (ma Il
Giornalino conteneva anche altri tesori!), e sono perciò
contento che Black Velvet me le riproponga oggi. Questo quarto volume
è sostanzialmente dedicato al terrorismo, e colpisce davvero
il modo in cui Gonano riesce a impostare il problema, senza, da un lato,
nessuna concessione all'ideologia delle BR, ma dall'altro con un'umanissima
comprensione per il contesto in cui il terrorismo rosso italiano si
sviluppa e si trova ad agire.
Ho letto con grande piacere anche Unknown/sconosciuto di Rutu
Modan (Coconino). Un disegno ligne claire ultrasemplificato,
ma molto molto efficace (e sia detto a maggior onore dell'autrice),
che racconta una storia ambientata a Tel Aviv, sullo sfondo del terrore
quotidiano che vi si vive. Ma attenzione: lo sfondo è proprio
uno sfondo, che fa emergere con maggiore vividezza l'anomalia di questa
normalità quotidiana, in cui si situa una relazione assai anormale
tra un uomo e una donna, conosciuti attorno alla ricerca di una terza
persona, padre di lui e amante di lei, scomparsa - forse identificabile
in un cadavere irriconoscibile, l'ennesimo morto dell'ennesimo attentato
in un locale. I due indagano, in ansia lei, scettico lui, che è
abituato alle scomparse del padre, e, indagando, si conoscono. Il racconto
è sinuoso, lungo, molto sentito. Si legge con intensità.
Il secondo volume di Interiorae, di Gabriella Giandelli
(Coconino), prosegue le malinconie del primo, ma non travolge. La Giandelli
è brava sia a disegnare che a raccontare, e ha realizzato fumetti
bellissimi; ma questa storia a più voci, di solitudini accomunate
solo dal trovarsi nel medesimo luogo, sembra mancare di quel guizzo
di meraviglia che di solito mi fa amare le storie di questa autrice.
Sarà che si tratta di un episodio, e che la storia non finisce
qui (questo però non è chiaro, come non era chiaro dopo
il primo che ce ne sarebbe stato un secondo). Insomma, aspetterò
ancora qualche mese prima di esprimere un giudizio definitivo.
Di Giacomo Nanni prima di tutto segnalo il sito,
che è pieno di piccole cose deliziose e un po' inquietanti. Poi
voglio dire due parole del suo libro Storia di UNO che andò
in cerca della paura (Coconino, tanto per cambiare). Qui l'inquietudine
ha lasciato il posto all'angoscia, e l'andamento circolare della storia
è quello dell'incubo. Il disegno, con un tratto molto essenziale,
non lascia spazio a compiacimenti. C'è solo, dappertutto, questo
orrore, che nemmeno l'amore è in grado di riscattare. E' un po'
la poetica del magazine Canicola, di cui ho già avuto
occasione di parlare in questo blog: bello, ma quanta melanconia!
Di Night Fisher, by R. Kikuo Johnson (sempre
Coconino, ma ve'!) colpisce indubbiamente il fatto che si tratti di
un'opera prima, e colpisce anche l'ambientazione nelle isole Haway.
Niente di esotico, però, e questo è il bello; ma puro
USA di provincia. E anche il modo di raccontare è quello dei
migliori giovani americani, molto apprezzato, di questi tempi. A me,
pur riconoscendo il valore, dopo un po' scende l'interesse. Ma mi succede
un po' anche con Craig Thompson. Quindi, lo si prenda come un complimento
per il giovane Johnson.
Il volume 2 degli Appunti di Alexander Zograf
(Black Velvet) prosegue imperterrito l'arguzia del primo, di cui già
ho detto. L'unica perplessità è nella modalità
di lettura di queste caramelle. Una per una sono deliziose, dopo trenta
la bocca si impasta e non ce la fa più. Bisognerebbe leggerne
una al giorno, la mattina quando ci si alza, o la sera prima di dormire.
Forse è davvero questo il segreto. D'altra parte sono state realizzate
per essere consumate più o meno così.
Black Velvet ci ripropone anche le torve ironie di Thomas Ott,
questa volta con Exit. Ma di uscita, per gli sventurati
protagonisti di queste brevi storie, sembra essercene poca. Grande disegno,
grande qualità narrativa, grande humor nero, tanto Edward Gorey
sullo sfondo. Un libro da collezione.
Ho ritrovato sul bel numero speciale di Mondo Naif (a celebrare
10 anni di vita della casa editrice Kappa) le mie parole su Pillole
Blu di Peeters, pubblicate su Golem.
Ma non è solo per questo che Mondo Naif è apprezzabile.
Trovo che i Kappa boys siano riusciti a costruire un'identità
molto italiana e bolognese anche più forte di quella (pur invidiabile)
di Coconino. Hanno autori di qualità e una produzione media di
tutto rispetto, anche se talvolta io fatico un poco a immedesimarmi
nel target, decisamente più giovane di chi scrive qui.
Non di sola rivista sono fatte comunque le edizioni Kappa. Ho sotto
gli occhi due libri. Uno è dell'autore di punta della casa editrice,
Vanna Vinci (non dico "autrice" non per sottintendere
malignamente qualcosa, ma semplicemente perché sennò sembra
che il confronto vada fatto solo con le altre autrici, mentre la Vinci
è davvero l'autore di punta tra tutti quelli del gruppo), e si
chiama Sophia, la ragazza aurea. E' del 2005 ma lo leggo solo
ora, e lo apprezzo come al solito si apprezzano i racconti delicati
della Vinci, anche se forse c'è un po' troppa alchimia qui per
trascinare davvero.
L'altro libro è invece appena uscito, si chiama Amori lontani,
ed è di Laura Scarpa, che già apprezzavo su Alteralter
negli anni Settanta. Anche questa è una storia molto delicata
e molto "kappa", ma patisce un po' dell'essere stata realizzata
in periodi differenti, con stili grafici abbastanza diversi. Bella,
comunque.
Infine, tanto per tornare a Coconino e Black Velvet, segnalo che ho
detto la mia su Marco Corona (Riflessi, e
Frida Kahlo) su Golem L'indispensabile. La
potete leggere all'indirizzo http://www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=63.
Per oggi basta?
2.dicembre.2006
Ho fatto qualche acquisto. Era passato troppo tempo dall'ultima volta
che ero stato da Alessandro (che non è un amico mio, ma la fumetteria
dove mi servo), e mi avevano addirittura sospeso l'abbonamento. Per
fortuna era presente lui, in persona (Alessandro), e me l'hanno ripristinato.
Alla fine non ho perso nulla.
Voglio parlare di Enrique Breccia. Chi è? Per
i lettori di supereroi, è l'attuale disegnatore di Swamp
Thing. Per i lettori di Skorpio e Lancio Story,
è il disegnatore di mille storie d'avventura. Per me, è
prima di tutto il figlio di Alberto Breccia, uno dei maestri del fumetto
del Novecento.
Enrique non è Alberto, lo so, ma è comunque anche lui
un maestro. So che ha sessant'anni, vive isolato e non frequenta nessuno.
In Argentina non ho trovato traccia di suoi lavori né nelle edicole
né nelle librerie (in Argentina ho trovato in generale poche
tracce di autori argentini - e dire che la tradizione del fumetto argentino
è, o forse era, tra le quattro più importanti del mondo!),
ed Enrique campa (mi auguro) dei diritti dei suoi lavori precedenti
(che si continuano a ristampare in vari paesi) e del suo lavoro per
i nordamericani. Ma non se la deve passare benissimo, visto che nel
suo sito (http://breccia.redsectorart.com/)
si offre per disegni su commissione.
L'occasione per parlare di lui me la dà una ristampa, pubblicata
una volta tanto non dalle edizioni Eura (cioè Lancio Story
e Skorpio) ma dalle piccole edizioni Andamar di Torino (che,
a quanto risulta dal sito,
oltre a questa serie in quattro volumi, hanno pubblicato solo un primo
volume di una serie di Don Rosa). L'edizione è in formato grande,
stampata bene. La versione del primo volume che ho comperato io (me
ne accorgo ora) appartiene a una serie limitata, numerata e firmata
dallo sceneggiatore, il grande Carlos Trillo - ma esiste anche una versione
normale, diversa solo per la copertina e l'assenza della firma di Trillo.
Si tratta di Alvar Mayor, realizzato originariamente negli
anni tra il 1977 e il 1983, un periodo in cui Breccia era integralmente
assorbito nella macchina dell'industria culturale argentina. Lo prendo
in mano subito dopo aver letto l'ultimo episodio di Swamp Thing,
sceneggiato da Joshua Disart e disegnato da Breccia quasi trent'anni
dopo Alvar Mayor.
Swamp Thing è un personaggio a cui mi sento piuttosto
affezionato. Persino nelle primissime e molto ingenue storie di Len
Wein ho sempre trovato un certo fascino, anche indipendentemente dai
bei disegni di Bernie Wrightson. Credo però che la responsibilità
principale della mia affezione vada ad Alan Moore, che sceneggiò
Swamp Thing per qualche anno intorno alla metà degli
anni Ottanta (con i disegni indimenticabili di Steve Bissette e John
Totleben). Ancora oggi sono quelle di Swamp Thing le pagine
di Moore che preferisco, con tutta l'ammirazione che si può avere
(e che ho) per Watchmen e per le cose fatte sino ad oggi. Moore
riuscì a caricare il personaggio di una tale carica emotiva che
ancora oggi gli sceneggiatori ci campano sopra, sfruttando le conseguenze
delle sue davvero innumerevoli invenzioni. E io ho continuato a comperare
e leggere Swamp Thing probabilmente per le stesse ragioni,
sperando di ritrovare qualche residuo di quella carica emotiva.
Per questo, quando un paio di anni fa la serie è rinata, trovarvi
la mano di Breccia mi è sembrata una promessa. Forse la vecchia
"Cosa del pantano", come la chiamano gli argentini, poteva
ancora darmi qualche sussulto di godimento!
Questo ultimo numero ha però un sovratitolo, che dice "Farewell
to..." e che, letto insieme con il titolo risulta qualcosa come
"Addio a Swamp Thing", e la copertina mostra il personaggio
che si allontana e svanisce nell'ombra, con un ultimo sguardo rivolto
indietro al lettore. Anche la storia contenuta nell'albo ha un andamento
conclusivo, tirando le fila delle vicende sviluppate negli ultimi numeri.
Ci sono altre minacce in arrivo, è vero, ma poi, sull'ultima
pagina la firma di Enrique Breccia è accompagnata da un "Fin"
che lascia pensare che questo seguito non ci sarà.
La saga della Cosa della palude sembra dunque essere finita di nuovo
- e la partecipazione di Breccia non è bastata a farla durare
più a lungo. A me viene da dire che - almeno dal mio personale
punto di vista - ne capisco anche il perché. Saranno state le
sceneggiature non all'altezza, sarà il lavoro per un contesto
culturale troppo differente, per cui è difficile calibrare i
toni, sarà che Breccia è stanco, ma questo Swamp Thing
aveva davvero un sacco di difetti.
Mi sono accorto, via via che ne leggevo gli episodi, che le idiosincrasie
di Breccia venivano fuori forse anche più delle sue qualità:
i nasi affilati, i denti digrignati, le posizioni contorte delle figure...
Sono cose che fanno parte dello stile di Enrique Breccia, ma nel suo
contesto normale fanno parte anche del discorso narrativo; insomma,
non si notano più di tanto. Qui, viceversa, diventano altrettanti
marcatori della presenza di un contesto horror, anche dove tale presenza
non chiede di essere marcata - soprattutto perché Swamp Thing,
da Alan Moore in poi, non è veramente un fumetto horror; o perlomeno
si situa un po' ai margini del genere: ne condivide certe caratteristiche
e sicuramente non altre.
Breccia gioca evidentemente fuori casa, e non capisce sino in fondo
qual è l'intensità giusta con cui deve premere l'acceleratore.
Pensa che siccome i suoi committenti e lettori sono nordamericani (e
in questo non ha tutti i torti) lo debba spingere parecchio, e le sceneggiature
di Dysart fanno lo stesso. Anche la dialettica politica di questi fumetti
gli è aliena. In Argentina è (o era) del tutto normale
che i fumetti anche più popolari, anche più di intrattenimento,
abbiano contenuti o valenze politiche. Qualche valenza politica si può
indubbiamente trovare pure nei comic book americani, ma a parte
casi o periodi particolari (vedi per esempio le cose del solito Moore),
si tratta di allusioni molto più velate e generiche. Breccia,
dunque, si comporta come gli viene chiesto di comportarsi da parte della
committenza; e indubbiamente ne soffre. Ma bisogna pur campare! Spero
che, col cambio così sfavorevole che ha il Peso argentino rispetto
al Dollaro, i dollari che ha guadagnato con questi disegni gli permettano
di vivere degnamente come si merita.
Di Enrique Breccia non posso dimenticare i disegni straordinari di una
storia ambientata nell'Algeria della guerra contro i francesi, realizzata
ancora negli anni Sessanta, e pubblicata allora da Linus. Ma, per restare
al presente, ho comunque sotto gli occhi questa riedizione di un Breccia
classico, con lo sceneggiatore più classico che potrebbe avere,
quel Carlos Trillo che, insieme a Hector Oesterheld, è per me
il simbolo del raccontare a fumetti di stampo argentino.
Alvar Mayor è una serie popolare. Veniva pubblicata
su Skorpio, una rivista argentina la cui omonimia con quella
italiana non è casuale. Le storie sono semplici e un po' ripetitive.
Il loro spirito non è molto differente da quelle del Dago
di Robin Wood che troviamo anche oggi nelle nostre edicole. E' comunque
lo spirito del racconto breve a fumetti popolare argentino. Eppure questo
campionario di efferatezza, mostruosità, arditezze, combattimenti,
tradimenti, buoni sentimenti e moralismo, sempre ripetuti in maniera
ossessiva, riesce ugualmente a mantenere vivo l'interesse del lettore.
Non mi è chiaro come.
Credo di avere letto ormai diverse migliaia di queste brevi storie argentine,
e dopo averne letto le prime pagine so sempre abbastanza bene come si
evolverà la storia e come andrà a finire. Eppure, nonostante
questo, continuo a leggerle con gusto, e a trovare incantevoli, per
esempio, certe tavole conclusive di questi racconti di Trillo e Breccia,
in cui, inevitabilmente, Alvar Mayor si allontana, all'interno di un
paesaggio che lo sovrasta; come a dire che la vita continua, e che questo
non è che un dettaglio di un mondo comunque meraviglioso e da
scoprire.
Forse è davvero questo il segreto nascosto di Trillo e Breccia,
e in generale dei fumettisti latinoamericani: il senso di meraviglia
di fronte al mondo e alla sua indescrivibile varietà. Mi si racconterà
magari sempre la stessa cosa, ma ogni volta posso rivivere almeno un
pizzico di quella emozione.
Noi europei l'abbiamo persa parecchio, quella emozione. I nordamericani,
a quanto pare, ne preferiscono altre.
24.novembre.2006
Sì, è vero, non sto leggendo molto ultimamente. Ma ci
saranno momenti migliori.
Nel frattempo ho (ri)detto la mia su Re in incognito di Vance
e Burr su Golem L'indispensabile. La
potete leggere all'indirizzo http://www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=62.
(L'ho ri-detta perché è una riedizione. Ne avevo scritto
diversi anni fa in un articolo intitolato "Re senza fissa dimora",
che è ora scaricabile nella sezione Downloads.)
18.ottobre.2006
Ho (ri)detto la mia su Annalisa e le altre di Guido Buzzelli
su Golem L'indispensabile. La potete leggere all'indirizzo
http://www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=61
9.ottobre.2006
Ora che Romics si è chiusa, posso rendere note
le mie impressioni sui libri che ho valutato nelle ultime settimane
in quanto membro della giuria per i premi sui migliori libri a fumetti
dell'ultimo anno. A chi sono andati i premi? Faticosamente, perché
davvero c'era un sacco di materiale di alta qualità, e decidere
in questi casi è una pena, i premi assegnati sono stati i seguenti:
Miglior libro di scuola italiana Pinky di Massimo Mattioli,
miglior libro di scuola europea (Italia esclusa) The Complete Brian
the Brain di Miguel Angel Martin a pari merito con L'arrabbiato
di Baru, miglior libro di scuola giapponese World Apartment Horror
di Satoshi Kon, miglior libro di scuola americana Città di
vetro di Paul Auster Paul Karasik e David Mazzucchelli, Premio
Speciale all'integrale dei Peanuts di Schulz, e Gran Premio
ad Annalisa, il diavolo e le altre di Guido Buzzelli. Se vi
stupite di quest'ultima scelta, è perché non conoscete
Buzzelli, e quello che è stato per il fumetto italiano, finché
è vissuto. (p.s. questo non è un comunicato
ufficiale; sto ricostruendo a memoria. Se desiderate la certezza, potete
verificare sul sito di Romics)
Ed ecco dunque, qui di seguito, i miei commenti.
...............................................................
Mi domando se Love my life di Ebine
Yamaji (Edizioni Kappa) sia davvero all'altezza del proprio
tema. Il tema è interessante e trattato con grande delicatezza,
e il libro si legge con piacere dall'inizio alla fine. L'omosessualità
della giovane protagonista non è vista come un problema se non
per i suoi risvolti sociali, ma è di passione ed emozioni che
si parla qui, amore e amicizia. Molto divertente è la scoperta,
fin nelle primissime pagine, che questa omosessualità che la
protagonista teme di far conoscere in famiglia, è invece molto
più condivisa di quanto lei potesse credere - e una volta che
lei ha la possibilità di esplorare questo mondo da dentro scopre
con sorpresa che è molto più diffuso e normale di quanto
potesse supporre.
E fin qui, tutto bene, anzi, molto bene, con bellissime descrizioni
di rapporti umani e sentimenti.
Però, alla fine, si esce da questa lettura con una sensazione
forse un po' caramellosa. Va tutto forse troppo bene; è tutto
troppo positivo; le soluzioni dei conflitti sono troppo facili. La passione
e la volontà vincono sempre; e sempre si arriva a capirsi. Bello,
positivo, ma un po' troppo.
Non che si debbano condannare le storie positive, ma quando ci si pone
come obiettivo questo livello di intensità narrativa, non si
possono risolvere così facilmente conflitti che conosciamo come
gravi. Forse, più che una pecca dell'autrice, si tratta però
di una pecca del genere: sembra che se tutto è delicato come
le giovani protagoniste, debbano essere delicati anche i conflitti.
Ma se i conflitti, che sono il motore narrativo dei racconti, finiscono
per essere così banalizzati, dove va a finire il piacere della
lettura? Come facciamo a gioire se prima non abbiamo sofferto?
L'impressione complessiva è quindi che non si arrivi da nessuna
parte, se non per caso, o per arbitrio narrativo. Eppure anche questa
stasi, questo lieve ondeggiare narrativo ha i suoi pregi. Adolescenziali,
forse, ma non meno validi per questo.
Murena - Il potere e la gloria, di
Jean Dufaux e Philippe Delaby (Panini) è un fumetto
storico, che ha per protagonisti il giovane Nerone e il suo amico-rivale
Lucio Murena. Nerone non vi appare come il mostro di follia che la tradizione
storica ci ha fatto conoscere, ma come un giovane che sta imparando
a comportarsi nel contesto politico in cui vive - ed è questo
contesto che a noi oggi appare indubbiamente mostruoso. Essendo in gioco
il massimo potere, la morte di comprimari e protagonisti è un
fatto frequente - tantopiù quando a muovere le carte è
la diabolica madre del giovane imperatore, la bella Agrippina, che ha
sposato l'imperatore Claudio per fargli adottare il figlio, in modo
da rendere possibile la successione, e poi è riuscita ad avvelenarlo.
Bisogna dire che la ricostruzione storica di Dufaux e Delaby è
eccellente, e che questo primo episodio della serie si legge con interesse
e quasi con passione.
Ammirevole è la fedeltà degli autori alle fonti storiche,
al punto che nei rari momenti in cui per necessità narrative
se ne discostano, il fatto è sempre segnalato in nota. Non si
tratta comunque di una lettura leggera, e questa fedeltà qua
e là nuoce al racconto, che appare nel complesso un po' impacchettato.
Ma non si può, lo sappiamo bene, avere la botte piena e la moglie
ubriaca, per cui questa occasionale ruvidità narrativa è
un prezzo che si paga volentieri per questa immersione radicale e ravvicinata
in un mondo così alieno e insieme così familiare come
quello della romanità. Anzi, bisogna fare i complimenti agli
autori per essere riusciti a mantenere così narrativamente avvincente
e fluida una materia così fedele al fatto storico.
Pinky, di Massimo Mattioli
(Mondadori) è un must da molti anni. Solo il fatto di
essere pubblicato da Il Giornalino l'ha forse relegato in un
universo collaterale, non troppo frequentato dai lettori abituali di
fumetti. Questo libro è sicuramente l'occasione per rimediare
all'ignoranza nei confronti di un classico dei classici, dello stesso
autore di Joe Galaxy contro le perfide lucertole di Callisto IV
e di Squeak the Mouse. Poiché il target di Pinky
sono i giovani lettori cattolici del Giornalino, Mattioli si
mostra evidentemente un po' meno sguaiato, ma la sua perfidia intermediatica
non è minore, e Pinky è l'esempio migliore che
si possa immaginare di come far ridere prendendo in giro gli stereotipi
della cultura di massa.
Che dire del terzo volume di The Complete Peanuts
(Panini)? E' bello sapere che c'è. Costa molto. Se me li regalano
tutti sono felice. E' realizzato con cura e stampato molto bene. E'
l'edizione definitiva di uno dei fumetti più giustamente celebrati
della storia. Se li possedessi tutti potrei pensare a uno studio dettagliato
della serie.
Ma ci sono cresciuto talmente dentro che è come se facessi uno
studio su casa mia. Il bello del mondo è la sua diversità
da casa mia. Casa mia è casa mia, e basta; è la norma
rispetto a cui tutto il resto si differenzia. Faccio addirittura fatica
a considerare Peanuts un fumetto, perché mi capita di
valutare i fumetti proprio per la distanza che mostrano rispetto al
modello di Schulz.
Ma questo vale per me, che ci abito dentro da quarant'anni. Per tanti
altri, è l'occasione per scoprire che persino l'immutabile Charlie
Brown ha avuto una storia.
Piccole storie di Mohiro Kitoh
(Kappa) è la raccolta di sette piccole storie autonome, con protagonisti
adolescenti, sospese tra realismo e fantasia - realismo magico, dovremmo
forse dire. Le storie sono positive e malinconiche. Nulla di grave succede
mai, e persino le morti sono riscattate dal ritorno delle persone sotto
forma di fantasmi amici - ma d'altra parte non ci si libera nemmeno
mai di una pervasiva malinconia, e nessun successo è fonte di
completa felicità. Bello, delicato, un po' esile, alla lunga
forse un po' ripetitivo, e forse un po' di maniera queste malinconie.
Ma se il target dei lettori ha l'età dei personaggi, allora è
davvero un libro delicato e sensibile che i lettori (e soprattutto le
lettrici) adolescenti possono apprezzare.
World Apartment Horror, di Satoshi
Kon (con Katsuhiro Otomo e Keiko Nobumoto - Star Comics) è
la raccolta di quattro storie di fantasmi, di cui la prima è
la più lunga e quella che dà il titolo al volume. Le storie
sono tutte e quattro molto belle, ed estremamente differenti tra loro.
Ma quello che più colpisce è la sapienza narrativa dell'autore,
che è capace di costruire quattro crescendi differenti, tutti
appassionanti, tutti mozzafiato.
Ho apprezzato in modo particolare la terza storia, quella ambientata
nel periodo dei samurai, in cui il conflitto tra due membri dello stesso
clan, giunti ormai alla resa definitiva dei conti, si intreccia con
l'apparizione di un mostro sanguinario, che fa strage di tutti indifferentemente.
Passioni diverse, ma tutte estreme, si combinano qui in lotte furibonde
in cui nemici e amici si scambiano i ruoli continuamente.
Insomma, una lettura di quelle da cui è difficile staccarsi.
Non stupisce che Satoshi Kon abbia poi avuto il successo che ha avuto
anche nel cinema.
Sky di Noboru Rokuda (Star
Comics) contiene quattro storie con tema comune il cielo. Aerei e astronavi
sono però l'occasione, assai più che l'argomento diretto,
per costruire delle storie delicate di relazioni personali e rapporti
umani. La vicinanza con Miyazaki è così evidente, nel
tratto grafico e nel modo di raccontare, che persino la presentazione
che ne fa la casa editrice non può evitare di sottolinearla.
Si tratta comunque di una lettura piacevole e dolcemente sentimentale
- forse anche un po' troppo, come forse appena eccessivo è quel
fondo di moralismo che attraversa un po' tutto questo genere.
La storia di Mara, di Paolo Cossi
(Lavieri) è un interessante esperimento di reportage biografico
a fumetti, con oggetto la vita della ex brigatista rossa Mara Nanni.
Colpisce, soprattutto, la riuscita alternanza di un registro drammatico
e di uno umoristico-ironico, ben caratterizzati anche nel tratto, ora
pittorico, ora al tratto con andamento caricaturale. Bella e viva anche
la ricostruzione degli anni Settanta e del contesto politico in cui
queste cose accadevano. Un po' sforzato appare invece alla fine l'espediente
narrativo di cornice: dopo tutta questa bella narrazione, scoprire che
la narratrice parlava solo al suo cane sottolineerà pure la sua
solitudine e il suo isolamento, ma appare inevitabilmente un po' artificioso.
Un bel caso che, poco dopo aver letto Annalisa, il diavolo
e le altre, di Guido Buzzelli (Lizard)
mi sia capitato sott'occhio un breve pezzo che avevo scritto su Buzzelli
nel '99, non ricordo più per quale destinazione, e che è
pure all'epoca rimasto inedito. Cercavo altro, e il nome del file (che
è anche il titolo dell'articolo) ha attirato la mia attenzione.
Ho deciso perciò di riportarlo qui:
La vittoria dei racchi
Ho amato Buzzelli per la bruttezza dei suoi personaggi. Il
che non è poco: quando qualcosa ti colpisce la prima volta a
ragione della sua bruttezza, e poi, nonostante questo, ti accorgi che
ti affascina - quel qualcosa ha superato la prova più difficile
che un prodotto artistico possa affrontare.
Dopo, la bruttezza che in prima istanza ti aveva colpito per quel che
appariva, acquista un senso, appare come parte di un discorso; a volte,
addirittura, come espressione di un qualche tipo di bellezza superiore.
Proprio questo mi è accaduto con i fumetti di Guido Buzzelli.
Ci sono autori, altri autori, qualcuno pure di maggiore successo di
lui, i cui personaggi sono belli, trasudano bellezza, sono così
consustanzialmente belli che persino quelli disegnati per apparire brutti
sono in qualche modo belli. Prima o poi, tutta questa bellezza finisce
per apparire stucchevole, e persino l'appeal erotico non appella
più, nonostante la profusione di chiappe e tettine.
Nei disegni di Buzzelli, al contrario, sono brutti persino i belli.
Persino gli uomini e le donne che, nella vicenda narrata, per ruolo
e circostanze sono evidentemente dei belli, persino loro, Buzzelli li
disegnava con qualche tara, o, al massimo, limitandosi semplicemente
e crudelmente a ingrossare o assottigliare qualche linea del disegno
là dove non lo si dovrebbe fare - e la loro bellezza, suggerita
da una parte, si rivelava del tutto effimera dall'altra…
Ho amato le storie di Buzzelli dalla prima che mi capitò sott'occhio,
"I labirinti", su un AlterLinus di venticinque anni
fa. Come gran parte delle storie che avrei letto negli anni successivi,
era una storia assurda, la cui morale terribile veniva trasmessa con
un sarcasmo da un lato così scuro e dall'altro così leggero,
che si arrivava alla fine pericolosamente sospesi tra divertimento e
tragedia. Tutto era brutto, atroce; e persino quello che all'inizio
sembrava essere una leggiadra via di salvezza si rivelava alla fine
assai peggio di tutto il resto.
Credo che il genio di Buzzelli sia stato quello di aver saputo comunicare
una visione radicalmente negativa della vita con la leggerezza di un
grande umorista, l'intensità di un grande narratore, il tratto
di un disegnatore indimenticabile. Rileggeremo a lungo i suoi inferni
a fumetti, e con piacere: l'opera di un grande moralista ci insegna
sempre qualcosa su noi stessi, e insegnandocelo col sorriso questo ci
resta più impresso; pure quando quel sorriso è così
amaro, come è stato il suo.
Mi dispiace tanto di non aver avuto l'occasione di conoscerlo di persona,
Guido Buzzelli, fin che ce n'è stata la possibilità. Che
fosse un grande lo mostrano bene anche questi cinque racconti accostati
non si capisce bene con quale criterio. Ma non solo per questo l'avrei
conosciuto volentieri: a colpirmi è la sua umanità e la
sua capacità di mettersi in gioco personalmente. Almeno due,
o forse tre di queste storie hanno come tema la sua stessa difficoltà
di raccontare: ma invece di essere sterili masturbazioni intellettuali
sul racconto che si autoracconta, sono vivissimi ritratti di vita, assurdi
e delicati insieme. E sempre estremamente coinvolgenti!
Seton - Lobo, il re dei lupi, di
Jiro Taniguchi e Yoshiharu Imaizumi (Panini) ha tutti i pregi
e i difetti dei fumetti disegnati da Taniguchi. Vale a dire molti pregi:
una bella storia, di argomento molto originale, disegnata da un maestro
- comunque a livello molto alto. E qualche difetto: il tratto statico
di Taniguchi (anche se qui si rivela qua e là una capacità
notevole di disegnare corpi in movimento, pur con questo segno scarsamente
dinamico), il racconto accompagnato quasi costantemente dalle didascalie.
I fumetti di Taniguchi sono sempre una lettura impegnativa, che però
restituisce in piacere della lettura lo sforzo necessario. Questa storia
struggente del naturalista che dà la caccia a un lupo così
geniale da parere quasi un essere umano è davvero originale,
anche a prescindere dal fatto che si tratti di una storia vera. Taniguchi
è bravo sempre a disegnare, ma qui con i lupi ha davvero superato
se stesso.
The Complete Brian the Brain, di
Miguel Angel Martìn (Coniglio) è un libro terribile
sulla differenza, che nasconde sotto la sua apparente ingenuità
le falde di un mondo crudele con i diversi - che paiono gli unici in
grado di comprendere e accettare gli altri diversi. Ma è anche
un libro sulle malefatte della sperimentazione scientifica in vivo,
che si nasconde dietro l'ipocrisia del "soggetto consenziente".
Ci ritroviamo, in altre parole, i medesimi temi di quell'opera terribile
che è il Woyzeck di Büchner, ma senza l'apocalittica
discesa nella follia che ne rappresenta la nemesi. In questo dramma
di fine Novecento, invece, non vi è nemesi; tutto accade in una
melassa rispettosa e buonistica, molto politicamente corretta, sotto
cui i drammi non sono però meno vivi e dolorosi. Brian resta
fino all'ultimo la figura positiva, l'innocente, il bambino
che accetta perché non può che accettare, visto che non
conosce altre realtà, e non ha alternative. Un libro struggente
e agghiacciante. Non
per bambini.
La bambina che pende di Schuiten
e Peeters (Lizard) inizia con uno di quegli straordinari inquadramenti
architettonici che solo Schuiten è capace di darci, e prosegue
con un'inquietudine rivolta al fantastico - il tutto davvero pieno di
fascino. Eppure tutta questa tensione sembra perdersi poi piano piano
per strada, come se gli autori non fossero riusciti a reggere sino in
fondo il livello della loro stessa fascinazione iniziale. E così,
l'espediente metaforico della bambina inclinata, esclusa dal mondo per
la sua diversità, si perde in una vicenda un po' troppo da David
Copperfield, e in cui la redenzione e il recupero della verticalità
appaiono vagamente sforzati (pur se non improvvisi, o impreparati).
E per quanto Schuiten sia un disegnatore di grandissimo talento, non
se la cava con le ambientazioni naturali o fantastiche altrettanto bene
come con quelle cittadine, che in questa storia vengono abbandonate
dopo le prime pagine. Resta comunque intrigante il recupero dell'immaginario
ottocentesco, con tanto di un Jules Verne in persona che compare nello
strano limbo in cui i protagonisti finiscono per arrivare.
Pyongyang, di Guy Delisle
(Fusi orari), è un delizioso quanto desolante ritratto della
vita nordcoreana, vista da un occidentale. L'autore racconta in prima
persona l'esperienza di alcuni mesi di permanenza nella capitale asiatica,
per curare la realizzazione di alcuni cartoni animati - visto il basso
prezzo della mano d'opera locale. Delisle è bravo e ironico,
e riesce a farci tollerare con la sua notevole capacità narrativa
questa condizione orwelliana di assoluta noia e immobilità in
cui il paese sembra vivere. Emblematico è il racconto delle sue
domeniche, e la conclusione che almeno così non gli manca la
voglia di tornare al lavoro. La descrizione della vita nordcoreana fatta
da Delisle è realistica e credibile, ma allo stesso tempo assurda
e inverosimile. La domanda che ci viene da fare, leggendo, è:
ma è davvero possibile vivere in questo modo? Il fatto è
che si tratta della stessa domanda che l'autore sembra porsi continuamente
lui stesso, e la risposta è uno sconsolatissimo: a quanto pare,
sì! E nonostante tutto, si arriva in fondo volentieri. Forse
Guy Delisle non è Joe Sacco, ma farci reggere così a lungo
una realtà così abbrutente, permettendoci pure di divertirci,
è qualcosa che richiede la mano di un maestro. Onore al merito,
dunque!
L'arrabbiato, di Baru (Coconino
Press, 2 voll.) è la storia di un giovane di un quartiere miserabile
della banlieu parigina, che riesce a diventare campione del mondo dei
pesi medi, ma viene poi incastrato con un'accusa di omicidio, montata
ad arte da una scuderia avversaria. E' la storia anche di una serie
di prese di coscienze, politica, affettiva, sentimentale; insomma di
un passaggio dall'adolescenza alla maturità. Molto ben raccontato
e disegnato, alla Baru, insomma, con molta rabbia dentro e un ritmo
narrativo da maestro. Qualche piccola caduta nel sentimentale qua e
là smorzano un po' la sua verve, ma, nel complesso, una lettura
interessante e avvincente.
Città di vetro di Paul Auster,
Paul Karasik e David Mazzucchelli (Coconino) è una storia
straordinaria, tratta da un romanzo che qui è stato magistralmente
tradotto a fumetti. Vi si racconta di alcuni eventi misteriosi e difficilmente
spiegabili che sconvolgono la vita di uno scrittore di romanzi gialli,
sino a rendere incerta la sua stessa identità. Ma il gioco di
travestimenti e di scambi di nomi coinvolge lo stesso autore, di cui
il personaggio prende a prestito il nome, dopo essersi confuso anche
con uno dei propri personaggi, e alla fine non si sa più chi
stia raccontando che cosa; e la dispersione è totale. Una lettura
struggente, con un ritmo narrativo esemplare, cui questa riedizione
rende pieno merito.
E, a proposito di riedizioni, termino queste note con la bella riproposta
de Il commissario Spada, di Gianluigi
Gonano e Gianni De Luca (BD - Black Velvet), uscito negli anni
Settanta su Il Giornalino. Si tratta di un classico del fumetto
italiano, datato solo per quanto riguarda il mondo che racconta, ma
attualissimo nel modo di raccontarlo. De Luca è stato un grande
autore di fumetti, e queste storie si leggono davvero con piacere, persino
quando, a volte, sono forse un po' troppo cattoliche. Ma non è
detto che si tratti davvero di un difetto.
14.settembre.2006
Ho detto la mia sul numero 240 di Dylan Dog
scritto da Tiziano Sclavi su Golem L'indispensabile. La potete
leggere all'indirizzo www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=60
.
Sino all'8 di ottobre questo blog sarà probabilmente fermo.
Sto leggendo i testi che partecipano al concorso Romics 2006, in qualità
di membro della giuria (con Alberto Abruzzese e Orio Caldiron). Sto
scrivendo su ciascuno una breve recensione, ma renderò queste
recensioni pubbliche in questo spazio solo quando i premi saranno stati
assegnati.
13.luglio.2006
Sono abbonato a Linus dal 1982. Allora era una rivista gloriosa,
dove in ogni nuovo numero potevi fare una scoperta straordinaria. Perché
invece continuo a leggerlo oggi? Non disprezzo gli articoli che ne occupano
buona parte delle pagine, salvo che il più delle volte non ho
proprio il tempo di leggerli. Voglio parlare solo dei fumetti. Non che
Linus pubblichi cattivi fumetti. Figuriamoci! Il problema riguarda
l'entusiasmo.
In altre parole, quando Linus mi arriva a casa, fremo, sostanzialmente,
solo per l'ansia di leggere il nuovo episodio della serie del momento
di Ralf König. Dopodiché salto a Doonesbury, che
è secondo solo perché, non avendo continuità narrativa,
manca dello stimolo dato dal "come andrà a finire?",
però mi attizza lo stesso. E poi?...
Poi ho già in mano il giornale, e lo sfoglio. C'è qualche
vignetta divertente, c'è Dilbert, sui Peanuts
ho già dato, leggo qua e là quello che c'è. Tutto
è buono, niente entusiasma. O sarò io, che non sono più
in sintonia con i tempi.
Ma diciamo di König. Le prime volte che leggevo le sue storie mi
domandavo: "Ma sarà politicamente corretto prendere in giro
i gay?". Eppure non trovavo, nei fumetti di König niente di
offensivo nei confronti dell'omosessualità. Anzi, semmai, una
comprensione umana, una visione delle cose da dentro così profonda,
che la presa in giro, l'ironia non la compromettevano affatto. Ma come
fa?, mi domandavo.
In alcune storie, come in quella che è in corso ora su Linus,
vi sono anche personaggi che omosessuali non sono, e l'effetto è
lo stesso, umanissimo ed esilarante. Ma allora, chi è l'oggetto
della presa in giro di König?
Credo che la risposta sia semplice, e sia più o meno la stessa
che si può dare per ogni grande umorista: sono le passioni umane,
è la vita. Per questo, i personaggi di ogni storia di König
sono piccole metafore dell'umanità, e l'accento sull'omosessualità
non è specifico. König, cioè, non affronta l'omosessualità
come questione specifica (o come problema, per dirla in versione
più spregiativa); piuttosto, usa l'ambiente
omosessuale come metafora dell'ambiente umano in generale. Altro che
questione, o problema! König non prende in giro
i gay, prende in giro gli esseri umani in generale, e lo fa dal suo
specifico punto di vista, espressivamente ottimo, a quanto pare.
Ma nel numero di Linus che mi è arrivato in questi giorni,
l'atteso episodio di König non c'è! Che delusione! Doonesbury
era comunque all'altezza. Quanto basta per rimanere abbonato.
Ho detto la mia su Pollo alle prugne
di Marjane Satrapi su Golem L'indispensabile. La potete leggere
all'indirizzo www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=59
6.luglio.2006
Per diversi anni, Alessandro Baronciani ha disegnato
fumetti, li ha fotocopiati, e li ha spedito per posta a un piccolo numero
di persone che si erano "abbonate". Poche piccole cose, in
bianco e nero, con un segno semplice e pulito. Ora Black Velvet raccoglie
le sue piccole storie in un volume, che si chiama Una storia a fumetti.
Baronciani ha una capacità notevole: quella di saper appassionare
il suo lettore con storie che quasi non sono storie, dove le cose, spesso,
più che accadere, si annunciano; oppure dove, quando accadono,
l'attenzione del loro protagonista è altrove.
Tutto, insomma, è delicatamente fuori fuoco, fuori quadro; e
questo crea un effetto di realtà formidabile. Si tratta di piccole
storie di vita quotidiana: amori che non sono sicuri di essere tali;
altri che lo sono senza sapere di esserlo; delusioni, illusioni... Alla
precisione e semplicità (ma efficacia) del disegno si accompagna
questo lieve deragliamento narrativo, che ci fa sentire tutto il peso
della quotidianità, quella che non abbandona mai nemmeno i momenti
più intensi della nostra vita.
In questo senso, Baronciani si inserisce bene nella linea intimista
dei fumetti d'autore degli ultimi anni. Ma lo fa ricavandosi uno spazio
proprio, personale, originale. Le sue storie sono fresche; le si legge
volentieri anche quando non si capisce bene (e non si può capire)
come vanno a finire.
D'altra parte nemmeno la vita "va a finire", se non in fondo;
e c'è sempre qualcosa di artificioso nel nostro pensare alle
storie come a qualcosa che termina. Terminano le "storie"
in senso sentimentale, quelle sì. Ma dentro di noi non terminano
mai del tutto nemmeno loro: e questo è qualcosa che sembra dirci
Baronciani, pagina dopo pagina, respiro dopo respiro, una piccola scoperta
nebulosa dopo l'altra.
Almeno, adesso che ha un editore, lo potremo leggere senza dover scoprire
che c'è un bravo autore che si diffonde solo per posta.
Sempre per la Black Velvet, Otto Gabos pubblica il
primo episodio de Il viaggiatore distante, una storia (forse)
autobiografica, dove si racconta di una coppia di italiani momentaneamente
emigrati a New York e in attesa di un figlio. Accostato al fumetto di
Baronciani, sembra un po' la sua traduzione matura. Evidentemente, è
semmai Baronciani ad aver dei debiti con Gabos, Vanna Vinci e la scuola
bolognese in genere (ma ne ha pure molti altri, e più lontani).
Qui, comunque, benché si tratti solo di un primo episodio, è
evidente che c'è un quadro narrativo generale, un disegno complessivo.
In altre parole si ha la sensazione che l'autore "voglia arrivare
da qualche parte". I fumetti di Baronciani possiedono tutta la
magia del frammento, con la sua capacità evocativa - ma anche
l'impossibilità di tenere avvinto il lettore a lungo sulla stessa
storia. Otto Gabos ha invece abbandonato da tempo questi profumi tardo-adolescenziali:
preparandosi a diventare padre, ha optato per le imprese di lungo respiro.
Per ora, comunque, in questa storia si respira soprattutto una bell'aria
di New York e di attesa, con piccole divagazioni surreali.
Fatti, detti, avvenimenti e peripezie di Bardín il Superrealista
è la terza uscita del momento di Black Velvet, scritto e disegnato
dal catalano Max. Bardín viene investito dei
poteri di Buñuel e Dalí dal Cane Andaluso in persona,
e questo gli permette di vivere surreali e ironiche avventure. Mi è
piaciuto? Be', sì. Max è bravo, originale, e disegna benissimo.
Però alla lunga le storielle surreali di Bardín stancano
un poco. Meglio allora forse Swarte o Floch, numi tutelari di Max.
18.maggio.2006
Demian, la nuova serie da edicola della Bonelli,
mi raggiunge con il primo numero, e non fa centro, neanche un po'. La
storia appare farraginosa, gli stereotipi (bonelliani e non) tanti e
troppo evidenti. Ho fatto fatica ad arrivare alla fine.
Non che un fumetto seriale possa fare a meno di stereotipi: Dylan
Dog ci è vissuto sopra con onore nei momenti migliori e
in maniera tollerabile in quelli peggiori. Altri fumetti bonelliani
riescono a presentarceli in un contesto in cui appaiono meno scontati,
e diventano perciò un pregio, anziché un difetto.
Ma Demian mi appare, alla lettura, scontato dall'inizio alla
fine. Il fatto che il protagonista del primo episodio sia uno scrittore
ci ricorda troppo il Poe di Magico Vento, e l'iniziazione dolorosa
di Demian con tanto di morte della fidanzata sembra estratta da Nathan
Never. In più, c'è un pizzico di superomismo marvelliano
- ma di quello di cui si potrebbe facilmente fare a meno.
Eppure, mi viene da pensare che con i medesimi ingredienti si sarebbe
potuto anche confezionare un prodotto forse non straordinario ma almeno
decente, come sono di solito le serie Bonelli. Credo che ci sia un difetto
ulteriore in Demian, allora, e cioè l'incapacità
da parte degli autori di costruire con questi elementi una trama che
sappia coinvolgere il lettore incuriosendolo su almeno una linea di
originalità. Ecco dunque forse il problema: non che ci sono tanti
stereotipi, ma che non c'è nessuna novità.
Mi consolo quindi leggendo Napoleone, in un episodio scritto
e disegnato da Paolo Bacilieri, che ha forse il difetto contrario: la
storia è decisamente originale (anche più della media
- comunque assai buona - di Ambrosini) pur pagando lo scotto di qualche
caduta qua e là, e di un finale non proprio del tutto risolto.
Ma le soddisfazioni della lettura di questo episodio sono comunque tante
che alla fine, anche se un po' dispiace per le cadute, l'effetto è
sostanzialmente molto positivo. Come dire: si poteva fare anche meglio,
ma su una qualità media di questo livello farei tranquillamente
la firma.
13.maggio.2006
Incrocio questo Il Gatto del Rabbino, di Joann Sfar
(Kappa Edizioni) e mi domando perché i racconti di Sfarr mi catturino
sempre, nonostante la loro leggerezza. Forse è - semmai - proprio
la loro leggerezza a catturarmi. Qui, il Gatto è il narratore,
ma il protagonista è il Rabbino, un tipo strano, che gira per
il deserto algerino a raccontare storie, accompagnato dal gatto stesso
e da un vecchio leone stanco e saggio. Un serpente li segue, perché
è amico del rabbino e aspetta la sua richiesta per morderlo e
dargli la morte - un gesto da lui considerato come un grande favore.
Di fatto il serpente protegge il piccolo gruppo, agendo nell'ombra.
Bene e male sembrano confondersi, sino a quando non appare (qua e là)
il male vero: gli occidentali, i francesi che ancora occupano il paese
e predicano superiorità della razza bianca e razzismo.
Sì, il segreto di Sfarr sta proprio nella leggerezza: raccontare
cose grandi, a volte drammatiche e crudeli, come se si raccontasse una
fiaba, con un'ironia leggera e un senso di leggenda - che non nascondono
i fatti, ma ci permettono di vederli come se fossero nuovi, come se
non ce ne avessero mai parlato. E quindi non ne siamo mai stanchi...
E' sempre la Kappa a pubblicare il primo volume di Lupus,
di Frederik Peeters (quello di Pillole blu).
Si tratta di una storia di rapporti personali e di avventura, in cui
l'ambientazione fantascientifica serve più da sfondo semitrasparente
e fantastico, che non da effettiva cornice. I personaggi vagano da un
pianeta all'altro, ma non sarebbe molto diverso se girassero da Gallarate
a Busto Arsizio, magari con una capatina dalle parti di Calcutta. L'ambientazione
fantastica non è, qui, che poco più di un (peraltro graditissimo)
condimento. Come nei lavori precedenti di Peeters, l'attenzione è
infatti tutta rivolta ai sentimenti dei protagonisti: lo stesso Lupus,
il suo compagno di viaggio, e la misteriosa sconosciuta che raccolgono
per strada - che turba Lupus, senza che lui sia capace di avvicinarsi
a lei veramente.
Ed è probabilmente questa tensione, quella di un rapporto inevitabile,
ma sempre rimandato, a costituire il motore principale della storia
- che alla fine di questo primo volume si sta tingendo di giallo, o
forse di nero. A quando il secondo?
8.aprile.2006
Da Old boy, di Tsuchiya Garon e Minegishi
Nobuaki (Coconino Press), il regista coreano Park Chan-Wook
ha tratto un film nel 2004. Però, non avendolo visto, dirò
due cose solo del fumetto.
Il tema della storia è tipico del romanzo di appendice, del feuilletton:
un uomo viene imprigionato per 10 anni in una sorta di prigione privata,
senza sapere da chi e perché. Un giorno viene liberato e, ragionevolmente,
vuole scoprire che cosa gli è davvero successo. Il tema è
quindi quello della vendetta, né più né meno che
ne Il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Ma qui non sappiamo
nulla neppure noi lettori, e quel poco che ci viene mostrato del persecutore
non ci aiuta a capire che cosa sia davvero successo. Alla fine di questo
primo volume, l'azione del protagonista ha appena avuto inizio, e non
so bene quanti altri volumi saranno necessari per arrivare al termine.
Si tratta comunque di un feuilletton di qualità, molto
ben costruito e molto ben raccontato. Aspettiamo fiduciosi (e curiosi)
il seguito.
Sembra invece arrivata alla fine la saga di Ai tempi di Bocchan
di Jiro Taniguchi e Natsuo Sekikawa,
con il decimo volume, dedicato agli ultimi giorni di Soseki. Un'opera
singolare, questa, che ricostruisce minuziosamente l'ambiente intellettuale
giapponese di inizio secolo, e la vita dei suoi protagonisti, letterati,
uomini politici e rivoluzionari. Forse perché davvero attento
alla fedeltà della ricostruzione storica dei fatti, non sempre
il racconto di Sekikawa è riuscito nel corso dell'intera serie
a mantenere lo stesso livello di interesse - anche se i disegni di Taniguchi
sono sempre notevoli. Ci sono quindi volumi dal contenuto appassionante
e altri un po' più noiosini. Forse, ora che siamo in fondo, bisognerebbe
avere l'occasione per rileggerseli tutti di un fiato; e magari così
avremmo la possibilità di scoprire dei collegamenti e delle relazioni
che la lettura inevitabilmente spezzettata rende impossibili da cogliere,
e troveremmo ragioni di interesse là dove non siamo riusciti
a trovarle la prima volta. Quello che Sekikawa è infatti molto
bravo a rendere è complessivamente il clima culturale dell'epoca,
che si riflette nelle personaliità dei vari singoli protagonisti.
Questo decimo volume, lettura continuata o meno, mi pare comunque uno
dei meglio riusciti della serie. La fine del romanziere Natsume Soseki
appare chiaramente come l'allegoria della fine della sua epoca, un momento
difficile ma culturalmente molto fertile della storia del Giappone.
7.aprile.2006
Non è una lettura facilissima questo primo volume di Riflessi,
di Marco Corona (Coconino Press). Ci sono continuamente
flash back e flash forward, e a una prima lettura l'identità
dei personaggi attraverso questi salti di molti anni non è immediatamente
evidente. Per questo bisogna rileggere almeno un paio di volte le 32
pagine di questo albo. E allora si scopre una storia triste e delicata
di solitudini e di affetti, e si capisce la ragione narrativa di questo
disegno non troppo accattivante, ma efficace, e si percepiscono le pause
e i silenzi, che sono uno dei motivi conduttori del racconto. Così,
piano piano, si entra nel mondo dei due fratelli protagonisti, e ci
si ritrova, alla fine, a desiderare il seguito, a voler sapere come
il racconto si svilupperà. Se Corona non si farà prendere
troppo la mano dalla sua vena tragica, potrebbe uscirne una bella storia
davvero. Aspettiamo speranzosi e curiosi i volumi successivi.
22.marzo.2006
Mi permetto di dire la mia anche su un testo non a fumetti, ma che di
fumetti in qualche modo parla. Andrea Pazienza. I segni di una resa
invincibile, di Rudi Ghedini (Bradipo Libri) è
uno strano libro che si legge come un romanzo, pur senza esserlo. Ghedini
racconta di Andrea Pazienza, ma racconta soprattutto di come lui stesso
ha vissuto quegli anni a Bologna, e di come i fumetti di Pazienza ne
siano la straordinaria testimonianza. Forse, leggendolo, non ho imparato
nulla che non sapessi già, né di Pazienza né di
quegli anni, visto che li ho vissuti anch'io. E tuttavia Ghedini è
davvero bravo a ricostruire emotivamente quel misto di speranze e velleità
rivoluzionarie, disperazione e senso di autodistruzione, che così
hanno caratterizzato quel periodo. Un tuffo affascinante e coinvolgente
nel passato, insomma, centrato sulla figura ambigua di Pazienza, geniale
e sregolato, capace di capire in anticipo il mondo attorno a lui, e
incapace di salvare persino se stesso. Un'icona bella e terribile di
anni altrettanto belli e terribili. Dei nostri vent'anni. Ahi!
21.marzo.2006
Black Velvet, felicemente iperattiva, ripubblica Durasagra. Venezia
über alles di Paolo Bacilieri, originariamente
uscito nel 1994. Mi sento in dovere di un piccolo mea culpa,
visto che in passato, ho dichiarato un problema nei confronti di Bacilieri.
Nonostante lo ritenga un ottimo disegnatore e narratore, sono sempre
stato un po' infastidito dalla sua esuberanza, e dalla sua tendenza
a riempire le sue immagini di dettagli collaterali - che spesso distraggono
dal racconto principale, e non sempre questa distrazione è produttiva.
Per questo, mi è capitato di apprezzare, in passato, più
le sue produzioni iniziali (come Barokko) o collaterali (come
Napoleone) che non quelle di maggior impegno.
Ora, devo invece riconoscere che questo Durasagra è
bellissimo, e che esprime con grande intensità la duplice tensione
della narrativa di Bacilieri, la quale da un lato tende a una classicità
magniloquente, fatta di corpi michelangioleschi, e meraviglie architettoniche
veneziane (tutto magnificamente disegnato), e dall'altro, non può
non vedere queste cose alla luce di una disillusione totale sul mondo,
piena di sarcasmo e pessimismo e feroce ironia.
Durasagra racconta la quotidianità di alcuni giovani
veneziani, senza uno scopo nella vita, a confronto costante con la bellezza
di una città di sogno, la quale a sua volta si confronta continuamente
con la presenza di squallidi edifici moderni a fianco di facciate indimenticabili,
e con la presenza di turisti che non ne possono percepire la natura
profonda, e che sono condannati a vivere emozioni da soap opera
sia tra loro che nei suoi confronti. Per questo la dannazione esistenziale
dei giovani veneziani finirà per causare la rovina degli stupidi
turisti, e tutta questa bellezza straordinaria non sarà che lo
sfondo di una vicenda squallida di ubriachezza e incapacità di
vivere.
Ma la bellezza, per Bacilieri, rimane, come resta la consapevolezza
di essere incapace di trovarne un canone preciso, sospeso com'è
lui tra Tintoretto, Robert Crumb, Jacovitti e Walt Disney. Ma proprio
in questo suo essere incerto sta la sua grandezza. In fin dei conti
la bellezza è solo qualcosa che si cerca, e sta forse proprio
nel cercarla. Solo i turisti della nave Beautiful possono pensare
di trovarla a Venezia già bell'e fatta, e pronta all'acquisto,
depurata di tutto il dolore che essa inevitabilmente si porta dietro.
La stupidità, prima o poi, si paga - e non solo nei fumetti.
Sempre da Black Velvet, ho in mano Apartments: gente comune,
di Otto Gabos & friends. Nel volume precedente
Otto Gabos aveva fatto tutto da solo. Qui invece si limita a sceneggiare
ottimamente una serie di racconti, che vengono poi affidati ad altrettanti
disegnatori, giovani e meno giovani, ma tutti davvero bravi. Sarà
la qualità dello sceneggiatore (il quale, ho il sospetto, non
si è limitato a scrivere le storie, ma ha probabilmente fatto
anche un lavoro di editing grafico e di supporto a tutti gli autori)
però anche i disegnatori più giovani hanno lavorato egregiamente,
senza cadere in quelle ingenuità che sono abbastanza tipiche
di chi non ha molti anni di esperienza alle spalle. La normalità
di una vita in condizioni anormali è il tema di questo libro,
come pure del precedente: nove racconti relativi ai nove appartamenti
di un condominio di un mondo dopo la catastrofe, in cui tutti sono geneticamente
mutati e portano tare evidenti e orribili. La normalità si accompagna
con naturalezza al paradossale. C'è la promessa, da parte dell'autore,
di farne una serie. L'aspettiamo con piacere.
17.marzo.2006
Ho una pila alta così di libri ricevuti o acquistati recentemente
su cui mi piacerebbe scrivere qualche riga - ma poi il tempo è
tiranno, e dopo qualche tempo la pila viene abbassata d'ufficio, e i
libri passano nel regno di ciò che è acquisito, archivio,
memoria. Avendo qualche minuto, sondo la pila, e ne estraggo questo
Cinema Panopticum dello svizzero Thomas Ott,
pubblicato da Black Velvet.
La prima sensazione che mi sale ha la forma di un nome: Edward Gorey.
E' legata a un fascino inquieto, a disegni scuri e fortemente tratteggiati,
a un senso di ironia nera, di inquietudine persistente a cui l'ironia
non permette di trasformarsi in paura, ma nemmeno di recedere a sentimenti
di maggiore tranquillità. Gorey, nella mia memoria, è
un maestro del turbamento e del sorriso a metà, della notte e
dell'angoscia sottile.
Per questo ritrovarne lo spirito in Ott è una bella sorpresa,
e tanto più lo è perché questa storia di storie,
tutte raccontate senza parole, riesce davvero a reggere il confronto
con la qualità di ciò che ricordo di Gorey.
16.marzo.2006
Ho cercato a lungo, e invano, tra i miei libri, l'almanacco Talking
Heads, pubblicato intorno al 1994 da una piccola casa editrice
umbra, la R&R. L'ho cercato non solo perché si trattava di
un bellissimo libro, sul quale avevo allora scritto una recensione molto
positiva sul domenicale de Il Sole 24 Ore.
La ragione principale è che quel libro conteneva, tra le altre,
una storia di Lorenzo Mattotti, dal titolo "Il
segreto del pensatore", della quale, nel suddetto articolo, dicevo:
Resta da parlare del testo più interessante del volume, che
varrebbe da solo a giustificarne l'acquisto. E' la storia breve (ma
più lunga delle altre) “Il segreto del pensatore”
di Lorenzo Mattotti, un vero poemetto grafico in punta di pennino. Un
uomo si addormenta sotto l'albero del pensatore, guardando le nuvole
correre e trasformarsi nel cielo. Ed ecco così venti pagine di
trasformazioni delle nuvole, che configurano personaggi bizzarri e accenni
di storie, storie che poi, come le nuvole, si dissolvono e trasformano
in altre, e così via. Ci vuole un grande artista (e poeta) come
Mattotti per rendere consistente una materia così fragile. Le
sue immagini sono l'esatto coronamento della poetica del bianco e nero
che ha ispirato l'almanacco: costituite da poche linee sottili di pennino,
tutta la loro forza è costruita attraverso il modo in cui queste
linee si ispessiscono e assottigliano, si incurvano o aggrovigliano,
si avvicinano e allontanano. Il susseguirsi delle vignette dona poi
alle immagini un'ulteriore fluidità, quella della trasformazione
nel tempo, del divenire del senso.
Poesia grafica, senza parole. Difficile da raccontare, come ogni poesia.
Sensuale e avvincente, e in un modo decisamente inconsueto. Non sappiamo
ora se questa giovane piccola arte diventerà grande ed accademicamente
riconosciuta. Se succederà, bisognerà ricordarsi che è
partita anche da qui.
Con un titolo diverso (Chimera), e 10 pagine in più,
quella storia viene ripubblicata ora in un volumetto autonomo di Coconino.
Mi sarebbe piaciuto ritrovare la versione del '94 per verificare se
davvero l'autore si è limitato ad aggiungere pagine, senza modificare
quelle esistenti, come la mia memoria mi suggerisce. Le pagine aggiunte
completano un processo, quello che va dal chiaro delle prime vignette
(pochi segni di pennino sottile su una pagina bianchissima) allo scuro
delle ultime (un groviglio indistricabile di rami, che riempiono le
vignette di oscurità). Del resto, vale quello che dicevo nel
'94.
Quanto all'Almanacco che non ho ritrovato, ha probabilmente patito della
difficoltà di dare un posto sensato a un volume con molti autori,
di un editore che non ha pubblicato altro, e senza un tema facilmente
definibile. Non ho una sezione specifica per i "bei libri".
Spero che un giorno o l'altro, cercando chissà cosa, me lo possa
ritrovare in mano, stupendomi una volta di più delle infinite
possibilità di classificare, o della povertà della mia
memoria, o dei misteriosi sentieri che un libro può percorrere,
quando si perde tra i tanti.
15.marzo.2006
Gipi sta davvero attraversando un grande momento. Ha
scoperto di essere un autore, di avere un pubblico, e che c'è
chi lo considera oggi il migliore narratore italiano a fumetti. E' forse
questa consapevolezza di avere comunque qualcuno disposto ad ascoltare
le cose che dice a galvanizzarlo, a riempirlo di entusiasmo. Così
le storie, i libri, gli escono uno dopo l'altro, con una frequenza sorprendente.
E data questa frequenza è tanto più sorprendente che la
qualità sia sempre così alta.
E' che Gipi, evidentemente, ha dentro di sé tante storie che
dovevano uscire, e questo è finalmente il momento per farle uscire
di fronte a qualcuno che le legga e le apprezzi. Inoltre Gipi ha una
capacità grafica notevole e di notevole originalità. Per
riuscire a star dietro alla propria verve narrativa, ha semplificato
il disegno, arrivando a uno standard di efficacia espressiva, in cui
poche linee e poche campiture di chine diluite sono sufficienti a costruire
tutto l'effetto emotivo - sino ad ampliarsi, di quando in quando, in
uno di quei paesaggi dal cielo straordinario (vero specchio dell'anima)
che lui è tanto bravo a rendere.
Questo ultimo Hanno ritrovato la macchina, pubblicato da Coconino,
è un libro così, che racconta una storia centrata su eventi
del passato, il ritrovamento (da parte di non si sa chi) di un'automobile
che contiene non si sa cosa, ma di certo qualcosa di terribile, che
non si doveva sapere. Ed ecco dunque i personaggi, agiti dalle proprie
emozioni nel momento del supposto pericolo, che mettono in moto una
storia di grandi tensioni in un contesto dall'apparente assoluta tranquillità.
Un contrasto, questo, che Gipi è sempre bravissimo nel rendere.
Ho solo un appunto, che non è su questo libro, che resterà
- io credo - tra i migliori libri a fumetti dell'anno. E' che ogni volta
che prendo in mano un nuovo libro di Gipi, spero di trovarvi non solo
il grande narratore che trovo sempre, ma anche i disegni straordinari
di Esterno notte. Ultimamente Gipi ci ha abituato a una sorta
di prosa di grande livello; Esterno notte era invece - e anche
grazie al disegno - una specie di forma poetica a fumetti. Confesso
che, proprio perché Gipi è così bravo, mi piacerebbe
che ce ne desse ancora.
10.marzo.2006
Ho detto la mia su Appunti. Un anno con Alexandar Zograf. La
potete leggere all'indirizzo www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=56.
Mi accorgo ora che non ho segnalato che avevo detto la mia anche su
Il complotto. La storia segreta dei protocolli dei Savi di Sion,
di Will Eisner. Quella la potete leggere all'indirizzo www.golemindispensabile.it/default3.asp?num=55.
11.febbraio.2006
Leggo Campo di babà, di Amanda Vähämäki,
primo libro pubblicato da Canicola. In copertina c'è un ragazzino
spaventato. Solo iniziando a leggere scoprirò che si tratta di
una ragazza. Vedo il segno a matita della Vähämäki, le
cui linee sinuose ricordano l'angoscia dei dipinti o dei disegni di
Munch. E di angoscia ce n'è tanta, qui.
Si inizia con un sogno, in cui un dinosauro divora Paperino e un nipote
in attesa dell'autobus. Ma questo non turba la dormiente, che sembra
quasi sorridere. E' la scena successiva a svegliarla, con la tensione
di uno schiaccianoci intento a stringere una mandorla, sino a spezzarne
il guscio. Ma quel guscio ha occhi e bocca, ed è evidentemente
terrorizzato dalla propria fine imminente.
La protagonista si sveglia, si alza, e la storia sembra avere inizio.
Ma la logica degli eventi che accadranno di qui in poi resta quella
del sogno, con concatenazioni inquietanti, e piccoli eventi innaturali
e conturbanti, che porteranno la protagonista ad arare un campo pieno
di babà vivi, che vengono massacrati dal suo passaggio.
Anche il disegno, lasciato a matita, e volutamente sporco, descrive
un'emergenza dell'inconscio, un avvolgimento del lettore nelle spire
di un'interiorità problematica.
Non una lettura amena, senza dubbio. Ma c'è una coerenza drammatica
in questo non-racconto, che spinge il lettore ad andare avanti, impedendogli
di evadere dall'esperienza di lettura proprio come un sogno inquietante
ci tiene lì, pure se vorremmo scappare. E i sogni, specie quelli
inquietanti, vengono sempre per dirci qualcosa, anche quando, inizialmente,
non capiamo bene.
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